Speranza nell'Islâm

Interpretazione della prospettiva escatologica di Corano XVIII

L'introduzzione del libero 
(Paolo Dall'Oglio, Speranza nell'Islâm, Casa Editrice Marietti, Genova, 1991)

Speranza nell'Islâm

Interpretazione della prospettiva escatologica di Corano XVIII

L'introduzzione del libero
(Paolo Dall'Oglio, Speranza nell'Islâm, Casa Editrice Marietti, Genova, 1991)

INTRODUZIONE


"Speranza nell"Islâm" significa sia la speranza di cui vivono i Musulmani, sia la speranza che noi nutriamo nei Musulmani, nello spirito della dichiarazione conciliare Nostra aetate n° 3 che recita: "La Chiesa guarda con stima i Musulmani che adorano il Dio uno, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai Suoi decreti anche se nascosti, come a Dio si sottomise Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce. Venerano Gesù come profeta, benché non lo riconoscano come Dio, onorano la sua madre verginale Maria, che talvolta devotamente invocano. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio darà la retribuzione a tutti gli uomini risuscitati. Per questo apprezzano la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. E poiché nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra i Cristiani e i Musulmani, questo sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a cercare sinceramente la mutua comprensione, a difendere, a promuovere insieme la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà per tutti gli uomini".
Qui evidentemente, non si tratta di "dimenticare il passato" nel senso di una rimozione della memoria storica, ma nel senso di porre un nuovo inizio sgombrando il campo, per quanto possibile, da rancori e pregiudizi, il ché richiede un'assunzione in profondità della memoria storica. Questa tesi, "speranza nell'Islâm" vuole essere un atto di adesione all'esortazione conciliare, specialmente nel senso della "mutua comprensione" riguardo alle aspettative per il futuro, il quale non può che essere comune, dei Cristiani e dei Musulmani in vista del "giorno del giudizio". Studiare la "speranza nell'Islâm" vuole essere un atto di discernimento spirituale che permetta di cogliere qualcosa delle vie lungo le quali lo Spirito conduce i nostri fratelli musulmani verso una metastorica pienezza di Verità. Un atteggiamento del genere è stato spesso definito piamente illusorio, e lo sarebbe davvero se evitasse di guardare in faccia alle difficoltà che il rapporto tra Cristiani e Musulmani ha sempre incontrato. Ma non è illusione sperare che l'Onnipotente vinca i nostri "realismi" e ci conduca ad un'autentica fraternità nel Suo Nome. D'altronde anche i tempi del movimento ecumenico sembrano spesso prendere dei ritmi "escatologici", ma ciò non fa diminuire l'impegno profuso per l'unità intraecclesiale. Come dice l'amico don Vittorio Ianari: "La sfida è proprio quella di lavorare con fiducia, testimoniando come cristiani una profonda fede nell'amicizia, con lo sguardo attento a cogliere quella nuova alba del mondo musulmano che ancora tarda a venire. Si tratterà forse di compiere infiniti "primi passi" che ci daranno la sensazione di essere sempre agli inizi e di non arrivare a vedere il futuro […] essere uomini e donne del dialogo non necessariamente vuol dire essere al tempo stesso coloro che il dialogo vedono realizzato". 
Riunendo esponenti di tutte le religioni per la Giornata mondiale di preghiera per la pace, nell'ottobre dell'86 ad Assisi, il Papa Giovanni   Paolo II ha realizzato un atto profetico di portata universale non ridimensionabile ad un gesto di irenica strategia. Mirabile ordalia di uomini di pace e di preghiera per i quali la guerra in nome di Dio è un gesto blasfemo e che chiedono la discesa dal Cielo d'un Fuoco che bruci le divisioni, quella santa assemblea è frutto dei voti e delle intercessioni di uomini di pace come Francesco d'Assisi apostolo disarmato e fiducioso presso il Malik al–Kâmil a Damietta. E' proprio in seguito alle riedizioni di quella Giornata, e nel solco di quella benedizione, che, in una lunga serata di spirituale amichevole colloquio con lo 0ayà Is£âq Idrîs Sakûta riguardo al futuro del mondo musulmano, è maturata l'idea di scrivere della speranza nell'Islâm. L'amicizia con la Comunità di S. Egidio, che continua a rinnovare e ad allargare l'esperienza di Assisi, ci fa desiderare che anche queste nostre pagine siano un apporto seppur limitato allo sforzo dialogico dei Cristiani nella Chiesa di oggi, a cominciare dalla Chiesa che è pellegrina con Pietro in Roma.
Il nostro interesse per l'Islâm, in quanto figli di S. Ignazio di Loiola, viene da lontano.  Quel nobiluomo basco, che era nato in un contesto che ancora viveva dell'epopea della reconquista  del territorio andaluso agli Arabi musulmani, visse la sua vita apostolica in un'Europa atterrita dai Turchi i quali, dopo la conquista di Costantinopoli, avanzavano nella regione balcanica e giungevano a minacciare il cuore dell'Europa. Egli si pose, nel suo rapporto coi Musulmani, in chiave di contrapposizione netta e non poteva essere diversamente dati i tempi, tuttavia egli visse, anche da questo punto divista, una profonda conversione ed una continua evoluzione. In seguito alla conversione, Ignazio, che non avrebbe esitato a risolvere con un duello una discussione teologica con un Moro, fu condotto a desiderare di pellegrinare fino a Gerusalemme e di restarvi per vivervi poveramente, come un discepolo del Signore, aiutando le anime. L'accento si è quindi già spostato decisamente dalla centralità dell'Europa cristiana, all'evangelica perifericità della Terra Santa, e dalla vittoria delle armate cristiane, alla salute delle anime, e quindi all'aiuto delle persone d'ogni luogo e condizione perché possano trovare Dio. Il cuore di questo cambiamento è la sua esperienza di personale rapporto affettivo col Gesù dei vangeli. In due meditazioni fondamentali, in vista della sequela cristiana, della seconda settimana degli Esercizi Spirituali (91–100 e 136–148), Ignazio propone di immaginare la sequela cristiana nella forma d'una "guerra santa", ma le armi non sono quelle del mondo ma bensì quelle del Gesù povero e umiliato che proprio stando in Gerusalemme invia i suoi a combattere le forze del nemico che si trova in Babilonia. La nostalgia di Gerusalemme, dove Ignazio fu pellegrino nel 1523 ma dove non poté rimanere com'era invece suo desiderio, rimarrà una costante nella sua vita. Il P. Kolvenbach, in una conferenza nel 450° anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Ignazio e dei Primi Compagni a Venezia, ha descritto l'attesa veneziana d'una nave che li portasse in Terra Santa nel 1537; la loro priorità apostolica e la loro strategia era sostanzialmente la stessa del primo pellegrinaggio di Ignazio:  "essere a servizio delle anime", "andare in mezzo agli infedeli" e "vedere se potesse fare qualche frutto". Per loro l'andare al mondo musulmano era una priorità ed era ritenuta la missione più difficile e necessaria; e partire da Gerusalemme era voler essere mandati da Gesù e voler imitare lo stile missionario di Gesù. Il pellegrinaggio fu impossibile a causa della guerra coi Turchi, e la Compagnia nascente prese la via di Roma, altra Gerusalemme, per essere inviata dal "Vicario di Cristo"; ma la priorità apostolica rimase la stessa come dimostrano le espressioni delle bolle papali di fondazione: "inviarli presso i Turchi", "inviarli fra i Turchi"; laddove per Turchi si intendevano ormai generalmente i Musulmani: "Il turco rappresentava l'unica importante sfida capace di distruggere la fede cristiana e la civiltà europea […] "il turco" provocava un insieme di reazioni altamente emotive e quasi apocalittiche. In poche parole, essere inviato "anche ai turchi" significava che i membri della nuova Compagnia erano disposti ad assumersi anche la missione più difficile alla quale uno poteva essere inviato".  Ma lo scopo è sempre quello di "aiutare le anime". Notevole è il parallelo con la Regola non Bollata di S. Francesco, del 1221, dove si parla della "cortesia" e della "sottomissione" di cui daranno prova i Frati Minori attendendo, per predicare, di vedere che sia Volontà di Dio; ed è sviluppando tale vocazione alla santificazione del mondo attraverso la presenza nascosta e la testimonianza discreta, sul modello della Famiglia di Nazaret, che Charles de Foucauld realizzerà la sua idea di vita religiosa nel contesto musulmano la quale tanta parte avrà nel rinnovamento e nell'approfondimento, sia da parte dei Francescani come dei Gesuiti, dell'antica sollecitudine dei loro fondatori per la salvezza dei Figli di Ismaele. "Nel celebrare l'anniversario dell'ordinazione sacerdotale d'Ignazio è bene per noi richiamare il significato della Formula dell'Istituto: "mandato ai turchi", non come a nemici o con spirito di crociata, ma "andando in mezzo" a loro con amicizia e amore. Noi siamo mandati come vi andò Ignazio, come uomo di fede umile e sincero, sollecito soltanto di servire gli altri in ciò che riguarda la vita spirituale, con disciplina di guerriero, ma come operatore di pace. Noi andiamo nel dialogo di una vita partecipata, da una parte ascoltando e imparando, ma anche testimoniando e offrendo. E se Dio vorrà, farà maturare dei frutti nei modi e nei tempi da Lui voluti".
 Eredi di una tradizione, con le sue luci e le sue ombre storiche, eccoci dunque chiamati ad entrare in dialogo con un testo coranico fondante per la speranza escatologica dell'Islâm. In effetti interpretare un testo è entrare in dialogo con la realtà umana che lo ha prodotto. Un dialogo tra persone è ben posto quando vi sia ascolto reciproco, reciproco influensarsi senza tentativi di plagio, reciproco rispetto per l'alterità e la differenza, giusta considerazione del proprio punto di vista senza assolutizzazione, rinuncia all'ideologia e apertura all'esperienza graziosa di verità che accade nell'incontrarsi… e l'interpretazione corretta d'un testo è analoga ad un buon dialogo tra persone. Con Gadamer diremo che l'attività ermeneutica, l'interpretare, è un "gioco".  Non nel senso che l'interprete mantenga un atteggiamento di ludico disimpegno, ma nel senso che, nell'interpretare, noi "partecipiamo", entriamo in gioco, poiché, solo se stiamo alle regole e solo se davvero ci impegnamo, il gioco riesce. In fondo è il gioco il soggetto di sé stesso, ed il giocatore ne partecipa, vi è coinvolto ed incluso. E ciò che avviene nel gioco ermeneutico è una manifestazione ed un'esperienza di verità, un incontro nel quale il senso ci si impone e ci avvince esattamente come il bello nell'esperienza estetica. E noi siamo inclusi in un accadere di verità il quale è possibile solo per questo essere entrati onestamente nel rischio e nell'incertezza del gioco, accettando di porci in questione e di porre in questione, in gioco appunto, la nostra tradizione, le nostre precomprensioni ed i nostri pregiudizi. In realtà attraverso il linguaggio, che ci predetermina e predispone, già da sempre eravamo in gioco, anche quando pensavamo di poter possedere la verità in idee non soggette al mutare storico, e, più che di autentico ascolto, si trattava di ridurre il testo alle nostre categorie dogmatiche.
Il testo coranico di cui affrontiamo l'interpretazione pone una serie di problemi ermeneutici. In effetti l'argomento non ci lascia indifferenti, infatti il modo dei Musulmani di guardare al futuro dell'umanità, riguarda in definitiva anche noi che ne facciamo parte. Tutto il Corano, in quanto testo sacro sommamente normativo per i Musulmani, diventa la sorgente del loro atteggiamento di fronte all'esistenza; non solo, esso è anche la principale chiave di lettura del mondo circostante, delle altre religioni, delle culture ecc. . Per cui l'Islâm si può definire una "tradizione coranica". E nella misura in cui il testo è alla base d'una tradizione che ha coscienza di costituire il nucleo centrale della Cominità escatologica degli autentici credenti, ad esclusione degli altri ed in opposizione ad essi, allora tale testo diviene anche per noi di capitale importanza ed inaggirabile nel nostro incontro con l'Islâm.
Inversamente, la tradizione cristiana, fondata nella Bibbia, ha una sua speranza escatologica la quale si presenta con l'assoluta pretesa di essere la salvezza per tutti, compresi i Musulmani, e tale precomprensione entra in gioco al momento del dialogo con la tradizione musulmana ed al momento dell'interpretazione del testo coranico che la fonda.
Ma il futuro è uno per entrambe le tradizioni. E' sempre stato uno e comune benché conflittuale. L'Islâm ed il Cristianesimo non si sono mai potuti ignorare, e gli stessi avvenimenti hanno avuto un senso di benedizione o di maledizione a seconda dei punti di vista. Si pensi per esempio alla presa di Gerusalemme da parte dei Crociati e la sua riconquista da parte dei Musulmani, o della conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi. Gli stessi eventi costituiscono trionfo per l'uno e tragedia per l'altro, e comunque fonte di grandi sofferenze per tutti. 
Grande dunque è il problema ermeneutico e molto più grande è la problematica storica ad esso connessa. Occorrerebbe una fusione di orizzonti ermeneutici; non nel senso d'una mescolatura delle tradizioni, ma bensì in quello d'un comune confluire su esperienze di verità paragonabili ed analoghe, di esperienze di verità dall'Alto vissute insieme, che permettano di rivisitare le rispettive e reciproche tradizioni con occhio tendenzialmente (mai pretendere di possedere l'assoluto!) libero da pregiudizi. Un'interpretazione tendenzialmente comune dei testi fondanti porterebbe ad un'interpretazione tendenzialmente comune della storia e ad una speranza tendenzialmente comune.
Il problema è complicato all'estremo dal fatto che il testo sacro non solo  pretende di essere vero, ma di essere vero perché rivelato da Dio. A monte d'ogni interpretazione d'un testo coranico vi è un'interpretazione della vocazione profetica di Mu£ammad. Noi ci rendiamo conto di toccare qui ad un tema imbarazzante per la tradizione cristiana che non ritiene possibile la venuta di altri profeti dopo il Battista, se non falsi. E qui la falsità sarebbe dimostrata dai numerosi versetti coranici esplicitamente anticristiani. Ma è proprio il discernimento, a partire dal testo coranico e dalla complessa e plurale "tradizione coranicha", dell'esperienza di Dio che esso veicola ed induce, ciò che permetterà di toccare più da vicino la realtà del Profeta dell'Islâm.
E non vale il rifugiarsi in uno studio "oggettivo", anche nella forma della "fenomenologia", perché negare al testo la sua pretesa di veicolare una verità che riguarda tutti, una verità su Dio, sull'uomo e sul mondo, è tralasciarne l'essenza, è negare l'intenzione intima del testo, oltre che la legittimità della tradizione su di esso fondata; e l'unico modo per non cadere in tale vuota "oggettività" è quello di lasciarsi coinvolgere a livello della propria esperienza di fede. Il che non significa, ma piuttosto implica l'uso scientifico dell'attrezzatura esegetica a disposizione: linguistica, storia, archeologia ecc. e tali scienze finiscono col costituire anch'esse una sorta di ulteriore tradizione ermeneutica di cui tenere conto.
Per evitare letture ingenue, non infrequenti, e per accettare l'ingenuità della propria lettura, occorre rendersi conto che la nostra comprensione è essa stessa storica, ed il testo non stà di fronte a noi in una sorta di originale purezza. Noi interpretiamo attraverso tutta una serie di pregiudizi e condizionamenti di cui raramente saremo pienamente consci, ed attraverso una tradizione che ci fornisce il linguaggio e che ci consente infine di traversare il tempo e lo spazio culturali e linguistici e di entrare in contatto col testo, ma sempre all'interno della mediazione costituita dalla tradizione stessa intesa come interazione di tradizioni. Ed il testo ci viene incontro quasi contrapponendocisi carico della storia ch'esso ha suscitato, delle reazioni che ha provocato, del contesto in cui nacque, della personalità di chi lo pronunziò ecc. .
Nella sua provinciale perifericità, anche il nostro sforzo ermeneutico è un momento della storia del testo e dei suoi effetti. E tutto ciò ha senso in quanto tende in definitiva ad essere una manifestazione–esperienza di verità. Il testo ha una sua pretesa di verità (espressa in una certa storica contingenza evidentemente). La tradizione, intesa qui in un senso di progressiva generalizzazione ed assunzione delle diverse tradizioni, ha una pretesa di trasmissione ed approfondimento della verità. E l'interprete non desidera altro che fare un'esperienza della verità nel suo storico avvenire. E' evidente che la dimensione etica, che fornisce all'interpretazione il suo strenuo tendere ad una verità certa, si esprime all'interno della storia degli effetti del testo benché la trascenda nella sua tendenziale assolutezza. E' la coscienza di questo processo ciò che Gadamer chiama la "coscienza della determinazione storica" (Wirkungsgeschichtliches Bewusstsein)  cioè della situazione ermeneutica che occorre assumere affinché proprio quegli elementi che possono apparire, a prima vista, degli ostacoli alla comprensione in quanto fonti di precomprensione e pregiudizio come la tradizione, la dottrina, l'ideologia, le attese di senso ecc., siano posti in gioco nella mediazione tra familiarità ed estraneità del testo, laddove avviene l'umana comprensione.
Lo studio che segue muove a partire da un pregiudizio favorevole all'Islâm, al Corano ed al Profeta. Tale pregiudizio è dovuto alla convinzione che lo Spirito di Dio è all'opera ovunque vi siano dei cuori che si aprono alla Sua azione graziosa, e dalla convinzione che non sia giusto tracciare una linea divisoria netta che riconosca l'azione di Dio nei cuori, ma che rifiuti di riconoscerla nelle istituzioni religiose che dai cuori degli uomini nascono ed alle quali i cuori si alimentano. In particolare, riguardo al fatto che l'esperienza di Dio stia all'origine del Corano, il nostro parere raggiunge quello del Groupe de Recherches Islamo–Chrétien : "Noi costatiamo, per cominciare, che la sua lettura [del Corano] se possibile nella lingua originale, rivela, al cristiano che la compia senza pregiudizi, un'esperienza profonda di Dio. Ci sono dei gridi che non ingannano. Beninteso una tale esperienza, come ogni esperienza religiosa o altro, sfugge alla presa della definizione, all'interessato stesso, ai suoi contemporanei ed ancor più a distanza. Essa si rivela esprimendosi, in un linguaggio che è spesso poetico o lirico. Il Corano ne porta le tracce indubitabili. Si potrebbero aggiungere anche altri indizi, non foss'altro che questo rifiuto di "provare", di rispondere ai politeisti i quali domandano delle prove, dei miracoli, mentre egli non può che affermare, proclamare ciò che ha visto (COR LIII 1–18, LXXXI 15–24, ecc.). Beninteso, si possono trovare delle altre spiegazioni a questa esperienza religiosa colta attraverso il testo del Corano, e non si è mancato di farlo: spiegazioni d'ordine umano, sociologico, psicologico, se non patologico. Vi sarebbe molto da dire specialmente sulla ingenuità degli "eruditi" quando utilizzano un materiale che conviene alla loro dimostrazione. Per noi, ciò che è in questione, è il "governo" divino del mondo. Non si può ammettere che un'esperienza ed un messaggio d'una tale qualità e d'una tale fecondità siano il frutto del gioco dei fattori umani solamente, restando in ciò Dio passivo e indifferente".  In questo senso noi preferiamo procedere alla lettura del testo piuttosto che costruire a priori una teoria della eventuale trascendenza della religione musulmana. Ne potremo dire di più nelle conclusioni.
Nel primo capitolo daremo una traduzione del testo del Capitolo della Grotta, COR XVIII, corredato da note riguardanti la critica testuale ed il senso delle espressioni più oscure. Tale traduzione è accompagnata da una trascrizione completa del testo arabo affinché anche il non arabizzante possa farsi un'idea della sonorità e del ritmo del testo originale.
Il secondo capitolo è una lunghissima citazione dal commentario di 5abarî. Tale capitolo si può utilizzare in due modi; il primo è quello di leggerlo per intero come atto di spaesamento nel mondo della tradizione musulmana legata al testo coranico; il secondo è invece quello di leggere, di questo commentario, quanto di volta in volta riguarda i versetti il cui studio è affrontato nei capitoli successivi.
I capitoli dal terzo al settimo sono costituiti ciascuno da due parti. Nella prima si procede all'analisi della struttura retorica del testo cercando di cogliere le interrelazioni dei diversi elementi tra loro, in questo modo, prima di porre delle domande al testo, sarà esso a manifestare la sua propria logica interna la quale non può essere trascurata da ogni altra successiva prospettiva di lettura. La seconda parte di quei capitoli sarà invece un confronto con le letture del testo da parte di alcuni importanti commentatori musulmani di varie epoche. Un'attenzione particolare sarà rivolta all'esegesi mistica del testo. Per questo ci siamo lasciati condurre soprattutto da Louis Massignon al quale questo testo del Capitolo della Grotta era carissimo e che egli definì l'Apocalisse dell'Islâm. Il nostro debito a Massignon è immenso. Le fatiche poi del P. Nwyia ci hanno permesso di poter capire e tradurre dall'Arabo i commentari mistici da lui pubblicati in edizione critica.
Giunti ai ringraziamenti, è doveroso iniziare coll'esprimere la più sentita riconoscenza ai benefattori che ci hanno consentito il dedicarci allo studio; inoltre la gratitudine va commossa alla solidarietà invisibile di tanti che con il loro affetto e le loro preghiere hanno sostenuto un impegno per diversi motivi gravoso. Un grazie devoto al P. Pedro Arrupe che accolse il desiderio nostro "d'andare nel Mondo Islamico" e che ancora offre silenziosamente il sacrificio di se stesso per amore della Chiesa; poi di cuore grazie, da discepolo a maestro, al P. Ary A. Roest Crollius; ed infine con rispettosa gratitudine consegnamo il lavoro al R. P. Peter–Hans Kolvenbach.
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