Tre letture dei lineamenta

Paolo Dall’Oglio

Tre letture dei lineamenta

per il Sinodo dei Vescovi sulla

Nuova Evangelizzazione (NE) per la trasmissione della fede

Che i Sinodi dei Vescovi siano preparati da una larga consultazione ecclesiale, che potrebbe coinvolgere i cristiani a tutti i livelli e in tutti i loro ruoli, è di per sé estremamente significativo e promettente. E’ con questo spirito di partecipazione e di comunione che ho letto e riletto i lineamenta e in queste pagine comunico le mie riflessioni, che spero risultino costruttive anche quando non sono riuscito a dominare una certa passione polemica; non l’ho censurata perché vorrei che dicesse quanto mi stanno a cuore queste problematiche dalle quali dipende il futuro della Chiesa e del suo servizio del Regno.

Procederò qui con semplicità rendendo conto delle tre letture successive, dalla più immediata alla più sofferta, come fossero tre capitoli di diversa lunghezza.

prima lettura, prime impressioni

EVANGELIZZAZIONE E DISCERNIMENTO (cfr. cap.3)

E’ probabile che la Chiesa cattolica s’illuda di poter reagire semplicemente con un colpo di reni alla sterilità geriatrica di cui soffre … Alcune Chiese protestanti sembrano in questa fase più dinamiche di quelle cattoliche e ortodosse. Il panorama protestante è estremamente contraddittorio, tuttavia una maggioranza di appartenenze ecclesiali sembra aver assimilato una certa antropologia liberale globale, costruendo su questa base un’esperienza rinnovata di comunità carismatica convocata dallo Spirito del Vangelo … Questioni come quella relativa all’emancipazione e ai ministeri femminili, all’accoglienza delle esigenze promosse dalla comunità GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transessuali), al divorzio, etc. sembrano risolversi quasi sempre in obbedienza alla morale neoliberale. Lo dico senza ironia e anche senza fretta di schierarmi.

Si osserva che sovente la Chiesa non riesce a elaborare un modo di fedeltà a se stessa (condizione d’autentica cattolicità) che sia coerente con l’ascolto profondo dello Spirito che parla e agisce nelle contraddizioni del mondo (spazio di dispiegamento della cattolicità). Sicché la Chiesa, per essere fedele, sceglie spesso di lasciarsi andare a una deriva tradizionalista e settaria.

POVERTA’

Un’altra questione che si presenta al cuore leggendo lineamenta è quella davvero irrisolta della povertà evangelica nella Chiesa. La questione non sta solo banalmente nell’accumulo finanziario, ma, di più, in un’estetica dell’arricchimento e del lusso che contraddice la bellezza di Nazaret. Intendiamoci, non è che la questione povertà non riguardi le altre Chiese! Tuttavia il mondo continua a vedere nel Vaticano una sorta di magnifico e ricco museo. Il volto mostrato dall’istituzione cattolica è ancora qualche volta quello della Roma rinascimentale accompagnato all’efficacia di genere capitalista tipica d’un’azienda internazionale. Il Successore di San Pietro e i suoi collaboratori sono visiti facilmente da molti più come dei clienti d’ottima sartoria e d’elegante oreficeria che come dei pescatori di Galilea. Che poi il tutto abbia un aspetto anacronistico non è la cosa più grave.

AUTORITA’

Dal punto di vista dell’autorità, la mancanza di democrazia resta teorizzata e l’apparato rimane dirigista e centralizzato. Naturalmente si può obiettare che è solo l’elemento elitario centralizzato quello che ha garantito alla Chiesa cattolica di poter conservare e promuovere un certo livello di moralità del clero. I fatti mostrano però il contrario. La corruzione morale economica, sessuale e politica insidia la Chiesa a tutti i livelli. La monarchia assoluta rinascimentale funzionava tollerando i disordini considerati non eversivi a patto che rimanessero “discreti” ed evitando le derive più gravi attraverso un sistema di servizi segreti concorrenziali che permettevano all’autorità di fare dei controlli incrociati.

Questo sistema è andato in crisi col Concilio Vat. II, ma non è stato sostituito da una forma più moderna ed efficace di controllo dei corpi istituzionali e del personale. La scienza sociale moderna insegna che solo la trasparenza, indotta e conservata mediante il concorso della libertà d’espressione e di comunicazione, consente di limitare le derive della corruzione negli ambiti giudiziario, amministrativo e legislativo. A voler vedere questo principio applicato alla e nella istituzione ecclesiastica non significa promuovere una rivoluzione democratica che verrebbe a ferire l’essenziale delle prerogative della successione apostolica e della responsabilità pastorale che ne deriva, a cominciare da quella del papato.

Basta mettersi d’accordo sulle parole: la partecipazione dei fedeli più larga e responsabile possibile alla vita della “cosa comune” ecclesiale è sicuramente un bene perché va nel senso della fede adulta. Ciò andrà conciliato con la dimensione carismatica - e dunque paradossalmente elitaria della Chiesa (profetica) - e la prerogativa del clero ordinato (la storia dirà un giorno se potrà anche essere femminile), la quale rappresenta concretamente un riferimento d’obbedienza alla dimensione trascendente e soprannaturale del corpo tutto.

Penso che si possa tranquillamente dire “viva la democrazia nella Chiesa” e che con questo non si tradisca necessariamente l’essenziale della coscienza ecclesiologica. D’altro canto, sappiamo che un corpo sociale abbandonato semplicemente alle voglie e agli interessi della maggioranza - e che non sia ancorato a qualche referente trascendente e morale - finirà in un populismo post-democratico, anticamera di nuove dittature.

L’INCULTURAZIONE (cfr. p 2).

I lineamenta per il Sinodo sulla NE citano un paio di volte l’inculturazione come elemento del discernimento dell’apostolato riguardante il contesto culturale e religioso. In generale il testo, che pure su temi come l’audacia dell’annuncio si ripete fino alla noia, rimane superficiale sulla questione teologicamente rilevante dell’inculturazione. Questa è sempre da intendersi come la capacità di leggere il lavoro preveniente e preparatorio dello Spirito negli ambiti storici cultural-religiosi della implantatio o re-implantatio ecclesiae.

E’ chiaro che la Chiesa Cattolica sa di doversi inculturare. Nello stesso tempo ha sempre paura di perdersi, di rinunciare alla propria originalità evangelica separandosi molto o poco dalla forma, dalla lettera della tradizione ricevuta. Il rischio è che finisca col tradire il proprio mistero dinamico e profetico per paura d’essere infedele … o semplicemente per mancanza di coraggio, attaccamento alle abitudini, o peggio, conservazione di sistemi di potere. (Un carissimo amico che è stato una decina d’anni in Madagascar mi racconta del dispiacere di dover utilizzare “pane francese” o “ostie occidentali” dovendo evitare i magnifici panetti di riso “mofo gasy”, candidi e saporiti, tipici … Eppure Giovanni, il discepolo amato, quello così vicino a Gesù, ci dice che Gesù ha moltiplicato una volta pane di frumento e un’altra volta pane d’orzo … La categoria “cereali” è insufficiente alla fedeltà? Occorre “la lettera che uccide” per celebrare liturgicamente la fedeltà alla Chiesa?).

NUOVA PENTECOSTE

Solo una potente pentecoste in un nuovo Concilio può consentire all’autocoscienza della Chiesa di andar oltre l’ormai apparentemente incolmabile fossato rappresentato dalle seguenti tre opposizioni:

(1) tra la conservazione, d’un lato, della sua (della Chiesa) propria differenza dal mondo, della sua tradizione obbediente al principio trascendente - che fa sì che sia nel mondo ma non del mondo – e, dall’altro, del suo far corpo col mondo in una radicale e drammatica continuazione dell’incarnazione;

(2) tra l’esigenza, per un verso, d’ottemperare al comando del Signore di predicare e di battezzare a tempo e a contrattempo, e l’impegno, per altro verso, a discernere con curiosità teologica e sorpresa carismatica i doni dello Spirito, il senso di trascendenza, i raggi di luce divina che preparano la buona terra della seminagione evangelica (e forse anche la resistenza per motivi profondi e seri da parte di culture e religioni alla pretesa universalistica cristiana) finché venga il Regno dei Cieli;

(3) e tra l’impossibilità di rinunciare, da una parte, alla sua antropologia evangelica, tale e quale sviluppata nella storia dogmatica centrata sull’idea d’una natura stabile, e il compito, d’altro canto, di partecipare a far fronte, a rispondere alla sfida dell’evoluzione antropologica odierna, in ascolto, in ospitalità, degli elementi magmatici e contraddittori - e tuttavia pieni di passione ed energia divine - che caratterizzano l’odierno umano ribollire.

Attendendo questa pentecoste e lavorandoci, è opportuno chiedere e praticare le virtù della pazienza (sapendo che il ritardo ecclesiale non è solo mancanza di buona volontà ma santa gelosia per la tradizione e ingestibile paura del mondo), la saggezza (nel dialogo si privilegi l’ascolto, perché nessuno ha il monopolio del futuro e della sua intelligenza, ma ciascuno ha il dovere d’offrire una testimonianza franca della propria visione e della propria interpretazione della comune visione ecclesiale in evoluzione), la riflessione (dove si combinano un’apertura contemplativa allo sguardo di Dio sul mondo con un’ermeneutica degli sguardi umani), la sperimentazione locale difesa teologicamente (si tratta d’esplorare le occasioni nuove offerte all’esperienza ecclesiale in contatto con le novità d’evoluzione sociale, “squattando” gli spazi di tolleranza che l’autorità ecclesiale lascia, magari per incapacità di controllo diretto e disciplinare o anche per disinteresse verso le marginalità che dunque diventano topos profetico).

Qui va anche detto che la paralisi del discernimento ecclesiale - l’incapacità d’un’assunzione di responsabilità pastorale concretamente esercitata - mostra una carenza di cattolicità. La difficoltà a concepire il pluralismo scivola in una tolleranza involontaria e irresponsabile. Sicché, insieme con il profittare della libertà offerta dalla marginalità, occorrerà, in parallelo, saper praticare, quasi forzare verso il futuro, la concreta maturazione della cattolicità del terzo millennio. Questa sarà caratterizzata dalla contemporaneità dell’esercizio ecclesiale globale; dove il discernimento ha ritmi quotidiani se non addirittura “live”, in “tempo reale”, “in diretta”. La Chiesa si pone l’obiettivo di contrastare, attraverso l’informazione che produce trasparenza, la diffusione dei germi di corruzione. Questi sono però bravissimi spesso a paludarsi di tradizionalismi ben accetti e abilissimi nella gestione delle parole d’ordine centrali più in voga. Basti qui per esempio l’uso dell’espressione “opposizione al relativismo” oppure “fedeltà al dato tradizionale” etc … La sperimentazione, operata nel vitro della marginalità, dev’essere oggetto di comunicazione in spirito di comunione ecclesiale universale e deve esercitarsi nella provocazione della responsabilità dell’autorità ecclesiale, affinché “non si corra invano”.

La riflessione teologica approfondita ad intra sarà l’altro volto del dialogo rispetto a quello ad extra verso il mondo. Dialogo fuori e dialogo dentro sono le due ali del discernimento teologico e dell’approfondimento del sentimento cattolico, in quanto teologico e non in quanto sociologico e corporativo. Da un lato il cattolico accorto sa che la virtù evangelica è anche portata da un corpo sociologico che potrà essere:

  • nazionale o etnico (e penso a tutta una serie di minoranze etniche in paesi di evangelizzazione recente dove la specificità tribale si è coniugata con l’appartenenza cattolica; a volte, come nel caso dei “dalit”, i fuori casta indiani, specificità etnica e particolarità sociale si coniugano.),

  • relativo a delle classi sociali (mondo rurale, parte del mondo artigiano, alcuni ceti medi indipendenti),

  • o, infine, relativo a una base sociale più cosciente teologicamente, come quella della nuove comunità, dei movimenti, del cammino neocatecumenale, delle aree, come la salesiana o la gesuita …

Ma, in fin dei conti, ciò che fa il nostro essere cattolici è un trascendere cosciente di tutte queste cristallizzazioni sociologiche, anche se apprezzate e valorizzate.

L’esilio sarà dunque lungo e questa Chiesa del prossimo Concilio deve darsi delle istituzioni che possano sorreggere e sostenere l’impegno in controtendenza, forse per generazioni. Conviene far qui l’esempio del movimento liturgico e dei prodromi del dialogo interreligioso che hanno preparato il Concilio Vaticano II°.

DIALOGO E ANNUNCIO, IL SIGNIFICATO D’UNA DEFINIZIONE.

Nei decenni passati si parlava appunto di dialogo e annuncio, oggi si deve parlare di rinnovato dialogo e nuova evangelizzazione … d’una nuova relazione tra incontro interreligioso ed evangelizzazione! Il rinnovo dell’evangelizzazione impone il rinnovo del dialogo.

La NE non sta in piedi da sé, come la “vecchia evangelizzazione” non costituiva un criterio sufficiente a dar ragione della relazione Chiesa-Mondo nella fase conciliare e post-conciliare.

Nel dire che si vuole, con la NE, aprire una nuova fase, occorre prendere in considerazione il fatto che la volontà effettiva di aprirla viene polemicamente contrapposta a quella del Concilio Vaticano II. Sicché qui la “novità” starebbe proprio nella capacità di riscoprire la continuità tradizionale, quasi che i “conciliari” fossero i partigiani della rottura per la rottura.

Al contrario, la NE potrebbe significare l’accoglienza delle sfide odierne nell’ambito dei vari scenari elencati dai lineamenta, e dunque presupporrebbe di coniugarsi con un rinnovato dialogo interreligioso e interculturale. I documenti sulla relazione e l’integrazione tra dialogo e annuncio, redatti a più riprese dal Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, andrebbero riletti e rinnovati perché la NE non avanzi zoppa. La cosa peggiore di tutte sarebbe quella di voler contrapporre NE e dialogo interreligioso. Questo rischio va caparbiamente evitato combattendo le tendenze rinunciatarie e arrendevoli delle esauste correnti post-conciliari. Bisogna anche aver fiducia nella forza d’abbrivio e nella massa sommersa dell’esperienza ecclesiale post-conciliare diffusa nel mondo intero e che probabilmente è in grado di opporre una resistenza passiva e addirittura contrapporre dei coscienti anticorpi ai rischi d’una malintesa NE.

Grazie a Dio nelle Chiese si continua a leggere il Vangelo … la stasi completa è impossibile … la celebrazione eucaristica, anche la più scandalosamente strumentalizzata a logiche di conservazione di potere e privilegio … è sempre un fatto, un evento destabilizzante, eversivo, sorgente di novità e mutazione antropologica. La Chiesa è tradizionale, addirittura tradizionalista, perché non può mai scrollarsi di dosso questo Vangelo, da sempre, da secoli, motore di cambiamento.

La tradizione della Chiesa è una capacità d’evolvere e cambiare in fedeltà al mistero che da dentro la commuove e da fuori la provoca a un assetto propriamente evangelico.

 

nuova lettura

La seconda lettura e’ stata più sofferta e con l’impressione di non riuscire a sistematizzare il discorso. C’e’ anche il sentimento d’un limite d’età: s’e’ fatto quel che s’è potuto, il mistero della Chiesa si svolge nella continuità trans-generazionale.

AUTORITA’ (Introduzione, par.2)

E’ chiaro che la Chiesa predica se stessa, il suo proprio mistero. Tuttavia non è banale, non è polemico, porre la questione della forma storica dell’esercizio dell’autorità relativa al carisma pastorale. In diverse occasioni, per esempio in riferimento al dialogo con le Chiese sorelle ortodosse, sia Giovanni Paolo II° sia Benedetto XVI si sono espressi in favore d’una revisione dell’esercizio del munus petrino, dunque dell’autorità papale, considerando questo come un cantiere teologico ed ecclesiologico aperto.

Tornare semplicemente all’ecclesiologia del primo millennio è impossibile proprio perché i tempi sono cambiati, e consacrare oltremodo la forma elaborata lungo il secondo millennio è altrettanto illusorio per lo stesso motivo. Auguriamoci che l’ecclesiologia del terzo millennio possa essere ricordata nel quarto come caratterizzata da una grande avventura ecumenica e d’inculturazione nel futuro mondo globalizzato.

A mo’ d’esempio ritengo che nessuno possa oggi illudersi, nella Chiesa Cattolica, che la questione femminile, e più in generale le questioni di genere, possano essere definitivamente congelate o poste in naftalina. L’evoluzione antropologica contemporanea avrà un impatto diretto sulla forma gerarchica della Chiesa a venire. Non è qui la sede per tentare di definire un tema che ci riguarderà tutti e per lungo tempo.

POVERTA’

Non c’era d’aspettarsi che i lineamenta per la NE si rifacessero alla Teologia della Liberazione; e di fatto non solo non lo fanno ma sembrano nuotare in un brodo sociale completamente post-classista. L’impressione è che i redattori del documento siano omogenei culturalmente a questa manipolazione post-moderna che pretenderebbe aver risolto in chiave liberale e consumista il dramma della questione sociale, tale e quale affrontato dalla Chiesa con alterne vicende nei secoli XIX e XX. In un certo senso, lo sfondo è quello dell’enciclica sulla carità di Benedetto XVI, dove la rassegnazione ecclesiale ai sistemi produttivi capitalisti internazionalizzati sembra un dato di realtà indiscutibile, che è solo, in questo mondo, da correggere e, appunto, con la carità. Sicché la Chiesa rinuncia ad accompagnare l’umanità sui sentieri degli escatologismi liberatori sociali e delle utopie egualitarie, e si assume in modo stabile la funzione di correttivo sociale e di balsamo per le piaghe più scandalose. Nonostante questo la NE non potrà fare né l’economia della scelta preferenziale per i poveri dell’Evangelo (mai citata dai lineamenta) né la tara sull’impegno per la giustizia che questo comporta. E’ peraltro curioso notare che negli ambienti neo-tradizionalisti post-conciliari si diffondono volentieri delle forme di scelta volte al pauperismo evangelico quasi fondamentalista che cercano, certo in modo meritorio, di riannunciare la buona novella ai poveri poveramente. Tali movimenti si caratterizzano per l’assenza di critica sociale, di coscienza di classe e di polemica nei confronti della ricchezza, come referente estetico e morale dominante nel mondo cattolico, a cominciare troppo spesso dalle autorità. Ciò non può che preoccupare e spingere a domandarsi se questo genere di pauperismo non costituisca di fatto una forma di radicalismo opzionale che funzionerebbe come una valvola di decompressione.

La questione della ricchezza della Chiesa, come ostacolo all’autenticità dell’evangelizzazione, anche nuova, resta da affrontare, ma non è affrontata dai lineamenta, se non di striscio. Sembra necessario qui riproporla come centrale, e con la coscienza che la Chiesa, in questa società reale, deve darsi necessariamente un assetto economico (e se lo è dato fin da quando la borsa fu affidata a Giuda). La questione istituzionale, sul “se” la Chiesa può e deve possedere, è stata, probabilmente per sempre, risolta nell’ambito delle polemiche sanguinose post-celestiniane. I movimenti dei poverelli francescani estremisti difendevano dogmaticamente, e per tutta la Chiesa, l’idea dell’illiceità del possesso, lasciandone l’onere diaconale ai laici … coi conseguenti problemi relativi alla mancata critica del possesso in sé. Resta che la questione della testimonianza della vita evangelica in povertà non può essere relegata a una rara specificità carismatica. Oggi pare che l’autorità ecclesiastica in generale sia rassegnata a un trend di vita borghese se non addirittura alto-borghese (anche perché il ceto medio modesto viene prosciugato dalla logica dell’estremizzazione tra pauperizzazione e arricchimento) sicché sembrerebbe che non ci sia più il desiderio di riproporsi il problema.

Certo la Chiesa teorizza la solidarietà coi poveri. Tuttavia non chiede di optare per la vita povera coi poveri. Anche se, occorre riconoscerlo, predica lo sforzo di scrollarsi di dosso la povertà disumanizzante per raggiungere l’essenzialità gioiosa in armonia col creato. Ancora non fa parte dell’evangelizzazione in modo adeguato la ricerca della sintonia coi ritmi di rinnovamento dei beni ambientali-naturali disponibili. Si tratterà di promuovere uno sviluppo sostenibile fondato su un’estetica della semplicità che spesso impara il bello dalle nazareth dei rurali semplici e degni, coscienti della loro responsabilità ambientale e del valore delle cose (il contrario dell’usa e getta consumistico) in un pluralismo armonico e sorprendentemente leggiadro, solidale in modo trasversale col mondo intero e riconoscibile quasi per un sesto senso.

COMMENSALITA’ INTERRELIGIOSA

La questione, anche escatologica, della convivenza duratura interreligiosa consiglia alla Chiesa di trovare un equilibrio dinamico tra evangelizzazione ad gentes e rispetto e considerazione delle genti nella loro scelta anche religiosa di non aderire, esplicitamente almeno, alla proposta della Chiesa. I lineamenta sembrerebbero impermeabili a questo tipo di questione. Forse la ragione è che, in origine, la NE è una strategia di recupero delle aree cattoliche scristianizzate e secolarizzate. Tuttavia quando, nel documento, si pensa di poter trasformare in un’occasione d’evangelizzazione il desiderio d’integrazione degli immigrati nel contesto socio-culturale occidentale, allora la contraddizione salta agli occhi. Infatti, il primo movimento consigliato dalla carità dovrebbe essere, al contrario, quello di soccorrere gli immigrati, esposti alla sofferenza dello sradicamento, nel loro desiderio legittimo di poter sintetizzare l’integrazione al nuovo contesto con la salvaguardia della propria originalità culturale e religiosa. A meno che in fondo non si voglia confessare la propria nostalgia per il monopolio cattolico esercitato in modo durevole e integrista sui corpi sociali omogeneizzati.

Nell’ambito della società multiculturale e multietnica globale, la Chiesa sarà tesa tra la fraterna convivenza, la commensalità, con le visioni religiose del mondo “altre”, da un lato, e, dall’altro con il discernimento di come il lievito evangelico abbia qualcosa da dire in vista della crescita della pasta globale. Ciò pur sapendo che anche “gli altri” hanno dei lieviti da offrire e delle esigenze da rappresentare e in un certo senso sono animati da una loro propria cattolicità, dalla coscienza cioè d’avere un ruolo da giocare nell’universale, una visione comprensiva da proporre.

Altrove (mi riferisco al mio articolo “Elogio del sincretismo”) ho detto che, dal punto di vista ecclesiale, il mondo è caratterizzato da vasti e stabili post-cristianesimi. Il modello analogante è quello del giudaismo post-cristiano. Questo si relaziona con la Chiesa a partire da una posizione di resistenza cosciente alla pretesa della cristianità di chiederne la dissoluzione per assumersi intero, per sostituzione, il ruolo religioso del popolo ebraico. Non è qui il caso di sintetizzare la storia del dramma giudeo-cristiano, tuttavia è sorprendente e doloroso che i lineamenta non sentano il bisogno di accennarvi. La Chiesa deve prendere atto, non con rassegnazione ma con acribia, con curiosità da scriba, con l’acutezza profetica della vita spirituale, che esiste l’Islam e che esso si comprende come esplicitamente e polemicamente post-cristiano. La Chiesa dovrà scoprire che esiste un induismo attivamente post-cristiano anche se in modo multiforme (penetrazione tentacolare in Occidente o confronto violento nelle periferie indiane … ). Il discorso vale pure per il buddismo, per le saggezze asiatiche in generale, come quelle sciamaniche, e anche riguardo al risorgere d’una resistenza cosciente al cristianesimo delle religiosità precoloniali africane e latinoamericane.

A questo quadro, già di per sé importante, di post-cristianesimi, va aggiunto un elemento di difficile gestione che è rappresentato dalla galassia gnostica sempre in grado di risorgere dalle proprie ceneri in mille forme, dal primo secolo e fino ad oggi, allorché va a combinarsi con le simbologie d’Asia (ma non è la prima volta) e se ne riveste. Penso che sia venuto il tempo nel quale il confronto con la gnosi non avverrà tanto nel quadro della lotta “contro gli eretici” ma in quello d’un dialogo d’arricchimento reciproco, dove la Chiesa possa dire con semplicità e acutezza i motivi della propria differenza e della propria indisponibilità a gettarsi nel mulinex del sincretismo globale new age. Allo stesso tempo la Chiesa potrà riconoscere di far parte di fatto d’un complesso elaborare interreligioso della spiritualità umana pluralista per questa generazione. Sarà bene che i cristiani si esercitino in tale pratica senza reattività settarie, istinti auto protettivi, febbri da concorrenza, angosce da dissoluzione e pretese d’aver l’ultima parola.

Naturalmente qui qualcuno ci darà del relativista. Accettiamo l’accusa e ne rifiutiamo la qualificazione eretica. Il felice slogan, che il Papa ha lanciato per l’incontro interreligioso di preghiera per la pace ad Assisi nell’Ottobre 2011, in occasione del venticinquesimo della prima eroica volta voluta dal suo predecessore, sintetizza fedeltà alla verità e relatività in movimento nel perseguirla: “Pellegrini di Verità, Pellegrini di Pace”. E’ nella prospettiva del Regno che la Chiesa si manifesta come pura intenzionalità divina sul creato intero e sulla storia umana tutta. Ciò però non può avvenire se non attraverso un’alchimia spirituale e culturale, dove la relazionalità, e dunque la relatività, offrono continuamente le occasioni di sintetizzare di volta in volta i modi dialogali d’esprimere sempre nuova quella dinamica evangelica che sappiamo per fede essere in grado - e lo è effettivamente - d’attirare il mondo verso il suo fine divino.

Queste righe le scriviamo assieme, Stefano ed io, con nel cuore le molte realtà ecclesiali periferiche che la vita e il discepolato ci hanno dato modo d’incontrare. Scriviamo in un antico e rinnovato monastero nel deserto siriano, Deir Mar Elian, in un’oasi sulla via della seta santificata dalle reliquie d’un padre spirituale, d’un monaco dell’Alta Mesopotamia. Furono trasportate qui dai suoi discepoli intenti a creare luoghi d’incontro ed evangelizzazione a favore dei figli di Ismaele dispersi nel deserto. Questi, islamizzati, hanno sempre visitato con devozione la tomba di quell’antico padre trapiantato in questo loro deserto come un olivo testimone della pace offerta, in mitezza e umiltà di cuore, dal figlio aramaico ed ebreo di Maria, ormai arabizzato nelle sure del Corano.

IL CANTIERE ANTROPOLOGICO

A conclusione della lista d’esigenze elencate dai lineamenta (Cap.3, par 21), e in dialogo con quella parte del documento che tratta dell’ “ecologia della persona umana”(p36), vorrei ribadire la necessità d’affrontare la questione del cantiere antropologico contemporaneo in un modo diverso da quello che sembra proposto qui. Nei lineamenta sembrerebbe che i doveri dei figli di Adamo verso l’ambiente naturale siano coniugati con un’idea della natura umana considerata acriticamente stabile e non evolutiva. Il proprio dell’uomo sembra invece quello di essere artificiale per natura.

La natura umana è ormai quella di dover gestire la propria identità specifica in una prospettiva di responsabilità morale radicale, dove la relazione a Dio non sarà più quella della mera obbedienza al Creatore-legislatore, ma bensì quella d’un partenariato drammatico, dove Dio ripone ormai la propria fiducia nell’autonomia della responsabilità umana. Sicché tutte le gravi scelte, nuove e urgenti, che si pongono a un’umanità che ha perso la possibilità di vivere naturalmente della natura, la obbligano a reinventarsi, non secondo natura ma secondo cultura. Qui si tratta d’altronde di rendersi conto che salvaguardare ciò che resta della natura (vegetale, animale, umana del pianeta) è una gravissima responsabilità collettiva e quindi un’enorme compito delle comunità religiose. Specie quando queste, al contrario, in nome della naturalità, sembrano proporre l’irresponsabilità demografica, il mito dell’inesauribilità delle risorse e il diritto di sfruttarle a morte da parte del mammifero più scaltro.

La fede cristiana sostiene l’intelligenza nella comprensione dell’equilibrio profondo che regge la struttura dell’esistenza e della sua storia [ … ] condividendo con la religione la sua sete di sapere, la sete di ricerca, orientandola verso il bene dell’uomo e del cosmo”.(cerca pag.)

Sottoscrivo, ma sento pure il bisogno di gridare che questo equilibrio è perso se mai è esistito. L’utopia dell’equilibrio attiene all’aspirazione o alla nostalgia paradisiaca. La realtà, invece, è quella del doloroso squilibrio che spinge Iddio fino a dubitare della bontà della sua creazione, come nel racconto del diluvio. Oggi l’equilibrio non è da conservare. E’ piuttosto un assente da invitare e da costruire. La conservazione del pianeta, affollato da troppi di noi, richiede uno sforzo tecnologico e inventivo enorme. Oppure il sovraffollamento obbligherà alla scelta tremenda di dimezzare in un modo o nell’altro la popolazione mondiale. Cosa che avverrà comunque se non si sceglie niente. La questione non è sapere se l’inevitabile progresso dell’eugènesi sia da condannare o no, ma scegliere quali siano le condizioni morali per un’eugenetica degna dell’umano che vogliamo. Non si tratta di non entrare nel “tempio della vita” ma di penetrarvi a piedi scalzi, sapendo che abbiamo a che fare con le cose più sacre della nostra autocoscienza umana in dialogo col divino.

Se la nuova evangelizzazione pretenderà di rinvigorire e ringiovanire l’audacia, l’ardore e lo zelo dell’appartenenza cattolica senza incollarsi il fardello di affrontare finalmente le questioni dell’antropologia post-naturale, in dialogo con le scienze applicate come l’ingegneria genetica, sarà difficile che possa dire qualcosa di convincente alle generazioni high-tech. Certo che bisogna mantenere, anzi sviluppare, l’originalità evangelica, ma si tratta d’un polo dinamico e non d’una cristallizzazione statica. Non entro nel merito perché bisognerebbe scrivere un trattato di morale speciale. La speranza è che, proprio nel contesto interreligioso, la Chiesa possa dar prova di genialità evangelica, consigliando anche alle altre comunità religiose (penso all’Islam ovviamente) d’accettare la sfida della relazione col progresso antropologico post-moderno. Auguriamoci che l’esperienza cattolica possa risultare esemplare e passibile d’essere in qualche modo riedita, in modo originale, attraverso gli strumenti ermeneutici delle altre grandi comunità simboliche.

MARGINALITA’ FEMMINILE

Non sorprende che, accanto all’esclusione della problematica femminista, anche la teologia mariana risulti minimale e marginale nei lineamenta sulla NE. Mi viene in mente una paffuta sacerdotessa luterana svedese che regalandomi un’icona della Santa Vergine, in ringraziamento d’un mio intervento in un incontro ecumenico scandinavo, mi diceva: “Sai, rispetto alla mia infanzia, nella quale la teologia della Chiesa della Riforma era soprattutto preoccupata di rispondere agli eccessi della “mariolatria cattolica”, il fatto che il clero del mio Paese sia costituito ormai in maggioranza da donne ha riaperto in positivo il cantiere della teologia mariana nell’ambito delle nostre Chiese. Il ministero al femminile permette di riscoprire e di riappropriarsi del mistero mariano della Chiesa intera”.

 

e tre!

Rileggo i lineamenta per il prossimo Sinodo (Ottobre 2012) “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. Ma sono sotto stress: da mesi, ogni settimana la richiesta di democrazia e la violenza repressiva si affrontano e ne conseguono durevoli sofferenze. Il conflitto dà spazio agli estremismi e conduce cristiani e pastori a un aumento d’angoscia.

Il documento sulla NE è zeppo di spunti stimolanti; tuttavia, a causa delle assenze e le mancate sottolineature, prevalgono in me delusione teologica, preoccupazione per il futuro del sentimento cattolico e timore che questioni urgenti non saranno adeguatamente affrontate.

Leggendo il testo da musulmano, salta agli occhi il fatto che in esso non si esprime interesse per un partenariato religioso volto ad affrontare assieme le sfide del “contesto sociale e culturale odierno”. La secolarizzazione riguarda anche l’Islam e la sua testimonianza … Ma è la dignità della sfera religiosa non cristiana a trovarsi marginalizzata in un documento tutto autoreferenziale, proprio nel momento in cui s’intende porre la questione del recupero alla fede di tanti spazi “persi” o mai raggiunti o semplicemente nuovi.

D’Islam si parla poco e solo negativamente. Un indiretto riferimento cita i “fenomeni di fondamentalismo che non poche volte manipola la religione per giustificare la violenza e perfino il terrorismo. Si tratta di un grave abuso. Non si può usare la violenza in nome di Dio” (p 14, par 1). Nel quadro dello scenario politico della NE, il “mondo islamico” è considerato il “nuovo attore” emerso sulla scena mondiale creando una “situazione inedita e totalmente sconosciuta” (p 14, par 1). Non mi pare tanto vero. L’Islam è partner problematico e inaggirabile del teatro politico e culturale globale dal settimo secolo a oggi.

I musulmani saranno d’accordo sul fatto che la luce del Vangelo debba illuminare tutti gli ambiti politici emergenti. Apprezzeranno che si elenchi “la costruzione di forme possibili di ascolto, convivenza, dialogo e collaborazione tra le diverse culture e religioni”. Tuttavia auspicano che anche la luce del Corano possa partecipare efficacemente a risolvere le gravi questioni globali.

L’impressione complessiva è che la Chiesa si proponga come protagonista globale unico. Il documento indica continuamente un soggetto cristiano audace, e zelante nel proporre la fede evangelica, come causa prima, trainante e finale dell’evento umano. L’Islam mette in scacco tale pretesa e chiede d’esser preso sul serio. Fa piacere che, trattando della nuova emergenza del bisogno religioso e spirituale, s’inserisca “l’incontro e il dialogo con le grandi tradizioni religiose, in particolare quelle orientali” (p 17). Tuttavia la comunanza tra le tre religioni abramitiche non è mai evocata. Guardare all’India è certo buono, ma distogliere lo sguardo dalla fraternità in Abramo con l’Ebraismo (mai citato!) e l’Islam non può esserlo.

Più avanti (p 18) si accenna alle Chiese cattoliche orientali per la loro esperienza nel quadro della NE in quanto comunità minoritarie e perseguitate … Il loro contesto musulmano resta sottinteso e connotato solo negativamente. Questo non aiuta nessuno né a Est né a Ovest! Il fatto che la visione favorevole ai musulmani del Concilio Vat. II sparisca regolarmente dai lineamenta dei Sinodi (mi riferisco per esempio a quello sulla Parola di Dio e a quello sul Medio Oriente), anche se poi ritorna “dalla finestra” dei lavori sinodali, è un segno d’islamofobia preoccupante. La bell’immagine, proposta da Benedetto XVI, d’un’umanità orientata nel Tempio di Gerusalemme verso una comune adorazione dell’unico Dio, e dove nel “cortile dei gentili” s’aprono spazi culturali (e interreligiosi?) d’elaborazione delle problematiche contemporanee, dovrebbe esplicitamente interagire con l’ancora attualissima visione pluralistica e inclusiva del Vat. II.

Concludo per ora denunciando l’assenza davvero sorprendente della questione femminile dal documento … per non parlare di quella della comunità GLBT che pure non manca d’imporsi all’attenzione cattolica con manifestazioni mostro, “gay pride”, fin nel cuore di Roma.

L’intento di creare nuove sicurezze, d’offrire un sistema definito d’appartenenze e di tracciare una prospettiva univoca d’audacia apostolica, è preoccupante: in un mondo pluralista la Chiesa sceglie di costruire la sua isola globale. L’esilio della cattolicità profetica sarà lungo. Nell’attesa d’invertire la tendenza, non resta che seguire il consiglio di Geremia: piantar vigne e costruire case durature.

20 Luglio 2011

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