Il sinodo per il Medio Oriente: Considerazioni dal deserto

I commenti che qui presento si basano sulle riflessioni fornite dalla Comunità Monastica di Deir Mar Musa el-Habashi in Siria ai Lineamenta preparati per la Speciale Assemblea del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, che io ancora considero molto importante, anche dopo la pubblicazione dell’ Instrumentum Laboris, che presento qui, insieme al testo che ho scritto sulla base delle mie impressioni su quest’ultimo, dopo le nostre discussioni a Londra. Vorrei evidenziare qui che i Lineamenta e l’Instrumentum Laboris sono entrambi pieni d’interessanti intuizioni. Comunque, il nostro ruolo non è semplicemente di reiterarli, ma piuttosto di stabilire ciò che noi pensiamo sia mancante o non abbastanza evidenziato. Il nostro approccio è da intendersi sempre costruttivo, anche quando i documenti sono criticati.

Si noti che: le espressioni sottolineate in questo testo sono quelle rifiutate dall’editore originario. Le ho sottolineate perché ora, dal mio punto di vista, sono maggiormente significative.


Ringraziamo di cuore per la traduzione dall’Inglese la Signora Lauretta Tommasini

 

 


(Hanno collaborato Carol, Fabiana e Jens)

 

 


 


Indice

Introduzione

E’ stato un onore essere invitato a partecipare alla conferenza internazionale in preparazione del Sinodo per il Medio Oriente, che si è svolta al Heythrop College, Università di Londra, dal 9 all’11 giugno 2010. La notizia dell’assassinio di Luigi Padovese, Vescovo dell’Anatolia, rileva la drammatica importanza di questo Sinodo1.

I commenti che qui presento si basano sulle riflessioni fornite dalla Comunità Monastica di Deir Mar Musa el-Habashi in Siria ai Lineamenta preparati per la Speciale Assemblea del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, che io ancora considero molto importante, anche dopo la pubblicazione dell’ Instrumentum Laboris, che presento qui, insieme al testo che ho scritto sulla base delle mie impressioni su quest’ultimo, dopo le nostre discussioni a Londra. Vorrei evidenziare qui che i Lineamenta e l’Instrumentum Laboris sono entrambi pieni d’interessanti intuizioni. Comunque, il nostro ruolo non è semplicemente di reiterarli, ma piuttosto di stabilire ciò che noi pensiamo sia mancante o non abbastanza evidenziato. Il nostro approccio è da intendersi sempre costruttivo, anche quando i documenti sono criticati.
Accettando il consiglio di buoni amici, traccio di seguito un quadro della Comunità Monastica di Deir Mar Musa el-Habashi e della sua specifica vocazione, per chiarire l’ambiente monastico dove nascono queste considerazioni concernenti il futuro delle nostre Chiese Orientali. I lettori che già conoscono la comunità monastica di Deir Mar Musa el-Habasci possono andare direttamente alla lettura dalla Parte I “Una Comunità Monastica riflette sul Sinodo”.

Contesto monastico

Ho fondato la Comunità Monastica di Al-Khalil, “Abramo, l’amico di Dio” (comunemente conosciuta come la Comunità di Deir Mar Musa) nel 1991 nel Deserto Siriano. La comunità vive, nell’antico monastero di Mar Musa al-Habashi (San Mosè l’Abissino) ad Est della città di Nebek, una vita monastica dedicata al dialogo islamo-cristiano, alla contemplazione, al lavoro manuale e all’ospitalità verso tutti2.
Il monastero di Mar Musa si trova sul versante orientale delle montagne dell’Anti-Libano almeno dal sesto secolo. Nonostante sia stato costruito sui resti di una torre di osservazione romana, oggi assomiglia a un castello di fiaba affacciato sul bordo di un precipizio scosceso che guarda il Deserto Siriano. Il primo riferimento alla sua fondazione è un manoscritto datato 575 d.C. che ora si trova nel British Library di Londra. E’ chiaro che a quel tempo la comunità era già una laura fiorente, i cui monaci abitavano come eremiti in grotte e si riunivano nel monastero per pregare. Sembra che la comunità sia stata più attiva dal sesto al quindicesimo secolo, dopo di che pare abbia sofferto un graduale declino3. Si è accertato un periodo di prosperità dall’undicesimo al tredicesimo secolo. Ciò è illustrato dal restauro della chiesa nel 1058, a cui fa seguito l’esecuzione di ben quattro diversi livelli di affreschi. Questi affreschi sono stati recentemente restaurati dal Direzione Generale Siriana delle Antichità e dei Musei e dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma ed hanno rivelato una complessa iconografia, che è specificatamente siriaca e non calcedoniana nella sua esecuzione4. Questo è l’unico ciclo completo di affreschi ancora esistente nel Levante e, come tale, costituisce un’insostituibile fonte d’informazioni sulla Cristianità siriaca medievale.
Oggi il monastero è attivamente impegnato in un’ampia varietà di progetti. Trovandosi alla sbocco d’una valle montana che conduce al deserto, è il luogo perfetto per impegnarsi con diverse organizzazioni ambientalistiche sperando di invertire la tendenza alla desertificazione ed incoraggiare la conservazione e la valorizzazione della biodiversità. Wadi Mar Musa (la Valle di Mar Musa) è stata dichiarata area protetta dal Ministero Siriano dell’Agricoltura nel 2004. Promuovendo l’eco-turismo si possono coniugare aspetti ambientali e culturali con esigenze le economiche. Tutti questi progetti sono intrapresi in piena collaborazione con la popolazione locale ed è importante che sia i musulmani sia i cristiani della società locale si sentano in relazione con la comunità monastica.
Dal punto di vista geografico e antropologico, il monastero di Mar Musa in tempi pre-islamici era situato, al confine del deserto, alla frontiera tra le popolazioni che parlavano aramaico e quelle che parlavano arabo. Era anche una nota sosta sulla via del pellegrinaggio a Gerusalemme ed è stato spesso sotto la giurisdizione della Chiesa siro-ortodossa di Gerusalemme.
Sembra che nell’undicesimo secolo la comunità monastica locale e gli abitanti dei villaggi vicini fossero già molto orientati verso l’Arabo. E’ chiaro che il Siriaco era già in declino e ciò è illustrato dalle iscrizioni scoperte sugli affreschi di Deir Mar Musa e sotto di essi. Tutte le iscrizioni a carattere storico sono in arabo, con alcune in Garshuni (caratteri siriaci ma parole arabe). Ciò dimostra una chiara consapevolezza che il Siriaco era rimasto solo una lingua liturgica (con l’eccezione dell’area di Maalula) e nello stesso tempo indica la consapevolezza di essere arabi in un mondo arabo. Deir Mar Musa ed i cristiani dei villaggi di Sadad e Qaryatayn dimostrano che già da quel tempo, una forma araba di cristianesimo si allontanava da un’eredità puramente siriaca. Il Siriaco rimane la lingua liturgica, ma i cristiani della regione erano fortemente coinvolti nella cultura araba, essendo in questo diversi dai cristiani siriaci del Nord. Questi cristiani siriaci del Nord, cioè del Nord della Siria, della Turchia e dell’Iraq, preservarono una cultura propriamente aramaica ed rimasero meno pronti ad accettare nuove influenze arabe nella loro cultura religiosa.
Come in molti altri posti di questa regione, si sviluppò una tradizione islamica locale riguardante il monastero di Mar Musa. Nel Corano Mosè è uno dei compagni di Al Khudr (Sura 18) e non è strano vedere i musulmani locali far visita a al-Khudr in questo luogo5. Per la popolazione islamica locale il monastero è un luogo sacro e ciò sottolinea il ruolo sociale e simbolico e la funzione dei monasteri cristiani nella società islamica, un fatto rilevabile fin dal tempo del Profeta Maometto fino ai nostri giorni. I cristiani ne sono sempre stati consapevoli, e spesso famiglie cristiane fanno visita a monasteri insieme ai loro vicini musulmani.
Un tema importante nella storia del monastero è stato il passaggio di proprietà dalla Chiesa siro-ortodossa6 alla Chiesa siro-cattolica7 nella seconda parte del 18°- inizio 19° secolo. La presenza dei missionari cattolici e una forte influenza francese, oltre all’esposizione ad altre influenze occidentali, ebbero un forte effetto sulla vita della regione. In Siria, una gran parte dei cristiani siro-ortodossi si convertirono al cattolicesimo. A Damasco e ad Aleppo la maggior parte dei siro-ortodossi erano già convertiti e lo stesso accadde in seguito a Nebek. L’evoluzione della vita religiosa e dello stile di vita, influenzati dallo sviluppo sociale e tecnologico e da difficoltà locali resero impossibile la vita religiosa a Deir Mar Musa. La vita monastica orientale scomparve in Siria, mentre si mantenne viva in Libano specie a causa degli aleppini che fondarono là i monasteri maroniti, melchiti e siriaci. Il nostro monastero fu abbandonato e in quel tempo molti cristiani siriaci emigrarono in Libano ed in Occidente. Il fatto che Deir Mar Musa e il monastero a lui vicino di Mar Elian a Qaryatayn rimanessero importanti è dimostrato dai prolungati e ripetuti ricorsi in giudizio tra le Chiese siro-ortodossa e siro-cattolica per stabilire la proprietà dei monasteri e dei beni ecclesiastici ad essi attinenti (Awqaf). La causa per la proprietà di Deir Mar Musa iniziò nel 1830/31 e continuò fino alla metà del ventesimo secolo – oltre cent’anni! Ciò illustra l’importanza simbolica di questi luoghi per i cristiani locali. Con l’abbandono di Deir Mar Musa e della casa sorella di Deir Mar Elian, i cristiani dovettero prendere una decisione per il futuro. Nel 1983 la comunità siro-cattolica di Nebek offerse Deir Mar Musa alla Direzione Generale Siriana delle Antichità. Questo trasferimento non fu mai completato, ma dimostra la profondità della mancanza di prospettive nella comunità locale. Il fatto che l’offerta fu ritirata fu dovuto anche al mio arrivo e coinvolgimento con Deir Mar Musa.
Vengo da una famiglia cattolica molto impegnata, con forti legami con i Gesuiti a Roma. Mio padre era profondamente coinvolto nel movimento cristiano sindacale ed io provengo da un ambiente con un forte interesse per i temi sociali e politici. Da giovane sono stato membro della sinistra del Partito Socialista Italiano. Ho partecipato a movimenti quali “Cristiani per il Socialismo”, “Comunità di Base” e i Boy-Scouts. La mia vocazione fin dall’inizio si basava su due punti. Il primo di questi è puramente ascetico – Dio, il Padre di Gesù Cristo, mi propose di non sposarmi, per avere una relazione con Lui più impegnata e radicale. Ciò mi fu chiaro il 12 maggio 1974. Ero ancora molto giovane, essendo nato nel 1954. Il secondo punto è l’universalità della missione della Chiesa, basata sulla rilevanza assoluta di Gesù Cristo per la salvezza d’ogni uomo e donna nel mondo, attraverso tutta la storia.
Di questi due punti vocazionali, uno è contemplativo e l’altro apostolico.
Ero stato nel Medio Oriente e in Palestina due volte prima di entrare nella Compagnia di Gesù nel 1975. Durante il mese di esercizi spirituali (gli esercizi ignaziani intrapresi in noviziato) ricevetti la chiamata spirituale ad offrirmi per la missione della Chiesa cattolica nel mondo islamico, nella sua specificità religiosa. Già allora Charles de Foucauld era molto importante per me, al fine di pensare le modalità d’una missione cattolica nel mondo islamico. Iniziai a pensare a come trasformare la presenza della Chiesa nel mondo islamico in una Chiesa per il mondo islamico. Allora nella Compagnia di Gesù, “inculturazione” era già una parola “chiave”.
Dal 1977 in poi fui mandato in Libano a studiare l’Arabo e tornai con un forte desiderio d’inculturare la fede cristiana nell’ambiente culturale, religioso e spirituale islamico. Ciò fu immediatamente coniugato con l’inculturazione nella Chiesa orientale. Ho sempre detto (ed ancora lo ripeto) che la Chiesa universale non sarà capace d’incontrare l’Islam ignorando i cristiani e le Chiese orientali, ma attraverso di loro.
Nel 1981 ho vissuto a Damasco e studiato l’arabo e la religione islamica, frequentando l’ambiente sufi della città. A quel tempo andai in pellegrinaggio a Qalaat Samaan e chiesi la grazia a S. Simeone lo stilita di farmi comprendere le priorità apostoliche per i discepoli di Gesù, sia uomini sia donne, in questo sofferente Medio Oriente. Per me dire “discepoli” significa sottolineare la connotazione della relazione di fede personale con Gesù di Nazareth. Preferisco questo al termine “cristiano”, che ha una maggiore connotazione di appartenenza sociale ad un corpo storico e culturale. Nell’agosto del 1982 intrapresi un ritiro spirituale di dieci giorni a Deir Mar Musa e sentii che l’intercessione di S. Simeone lo stilita era stata efficace, quando ricevetti tre direttive o priorità apostoliche.
La prima era la vita contemplativa e l’esperienza radicata nel mistero di Gesù Cristo e della sua Chiesa e quanto più possibile profondamente inculturata nel contesto e nella tradizione spirituale islamici, così come nella tradizione cristiana orientale locale, benché aperta ad un rinnovamento spirituale universale. Qualcuno potrebbe chiamarla spiritualità pluralistica per un mondo globalizzato in cui i valori delle particolarità non sono né ignorati né considerati assoluti.
La seconda priorità era quella del lavoro manuale, per trovare una soluzione storica al fallimento del voto di povertà nella vita religiosa. Si tratta d’uno strumento ascetico e di un’assunzione di responsabilità sociale e ambientale, oltre che di un’espressione di antropologia evangelica, un modo concreto di essere discepoli di Gesù di Nazareth (ed anche questo è uno dei motivi per cui siamo orgogliosi del nome islamico per i cristiani: Nasara).
La terza priorità era quella dell’ospitalità abramitica in cui amore di Dio ed amore dell’Uomo diventano un solo amore.
Da questa prima esperienza dell’agosto 1982, queste tre priorità mi si presentarono come un progetto apostolico e spirituale che trovò in Deir Mar Musa un luogo ideale per la sua realizzazione. Queste priorità definiscono un metodo d’azione in vista dell’elemento principale: la missione, il servizio della Chiesa in e per il mondo islamico. Necessariamente ciò dev’essere realizzato in concomitanza con la dimensione ecumenica e una forte dinamica cristiana. Se lavoriamo per l’unità dell’umanità, ciò crea un movimento d’unità tra i cristiani.
Iniziai quindi un dottorato sull’Islam e il dialogo religioso intitolato “Speranza nell’Islam”, che riguardava l’ermeneutica dell’escatologia del Corano. Molto presto Louis Massignon8 divenne estremamente importante e fu lui a condurmi ad approfondire la mia relazione con Charles de Foucauld9.
Dal 1984 in poi si organizzarono nelle rovine del monastero campi di preghiera e lavoro per la gioventù. Questi gradualmente mi portarono a comprendere che fondare una comunità monastica a Deir Mar Musa era diventato un dovere di coscienza. L’uomo che più efficacemente m’incoraggiò fu l’Arcivescovo Melchita di Aleppo, Monsignor Neophytos Edelby, che confermò autorevolmente questa vocazione. E’ noto che fui costretto a lasciare la Compagnia di Gesù dal 1992 al 1997. Non ero capace di mettere insieme il desiderio d’obbedienza, la consapevolezza d’essere obbligato in coscienza e un carattere difficile. Nel 1991 iniziai a vivere a Deir Mar Musa con P. Yaaqoub Mourad, un diacono della Chiesa Cattolica Siriaca. La cosa più importante accadde il giorno dopo Natale, nella Festa della Madre del Signore. Sentimmo che la Madre di Gesù c’insegnava il suo silenzio e ci chiedeva di stare per un’ora in silenzio insieme in chiesa prima della liturgia serale. Questo tempo è dedicato alla preghiera e all’intercessione silenziosa con Gesù e sentimmo che questo era un dono della Madonna.
Molto presto alcune donne ci chiesero di unirsi alla comunità. Nonostante poche siano rimaste, sentii che questo ci consentiva di costruire una casta armonia tra uomini e donne: esser discepoli di Gesù in una comunità di preghiera, lavoro e accoglienza, è proprio il modo per apprendere la grammatica basilare del dialogo inter-religioso e inter-culturale e la costruzione dell’armonia.
Dal punto di vista canonico la comunità monastica dipende dall’Arcivescovo siro-cattolico di Homs, Hama e Nebek. La comunità ha un grosso debito verso Sua Eminenza il Cardinale Musa Daoud. E’ stato Vescovo del monastero dal 1992 in poi e nel 1997 riuscì a trovare un accordo soddisfacente tra l’Eparchia e la Compagnia di Gesù. Fu in seguito eletto Patriarca siro-cattolico ed infine si prese cura della comunità da Roma, come Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali. Quale Vescovo ricevette la prima recensione della regola della comunità e approvò verbalmente un suo sommario. Quale Prefetto per la Congregazione della Chiesa Orientale chiese un nuovo testo, più coerentemente armonizzato con il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Questo testo è stato poi scritto in Arabo e tradotto in Italiano e, dopo ampio discernimento e discussione ha ricevuto il nulla osta della Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2006. Tra i temi più delicati c’era il fatto che si tratta di una comunità monastica di uomini e donne in piena parità e condivisione di responsabilità, nonostante essi alloggino in modo chiaramente separato. Il secondo tema era il desiderio d’essere una comunità monastica appartenente alla Chiesa cattolica e che fosse, allo stesso tempo, rispettosa profondamente della provenienza dei suoi membri da Chiese diverse. In questo momento la comunità è formata da membri d’origine ortodossa e cattolica, delle diverse Chiese occidentali e orientali; anche alcuni protestanti hanno mostrato interesse per la nostra vita.
Chiariamo: la comunità chiede a tutti i suoi membri d’avere un maturo, profondo e impegnato senso del mistero della Chiesa nel suo essere cattolica “sotto” Pietro. Allo stesso tempo la comunità chiede a tutti i suoi membri di afferrare, rispettare e amare il mistero provvidenziale delle particolarità delle Chiese ortodosse e protestanti al fine di non aggravare le ferite delle divisioni, ma poter offrire una prospettiva concreta di profetica e dinamica unità.
Oggi la comunità è presente in tre luoghi, Deir Mar Musa, Deir Mar Elian in Qaryatayn in Siria e lo Studentato di San Salvatore in Cori, a Sud di Roma. I monaci e le monache della comunità studiano a Roma teologia e filosofia. Per questo e per i nostri grandi sogni d’avere in futuro dei monasteri in vari paesi islamici, ci siamo dati la struttura canonica d’una federazione monastica.
Per i voti abbiamo adottato una delle opzioni previste da Diritto Canonico orientale. Dopo un anno di prova ci sono tre o quattro anni di noviziato, seguiti immediatamente e semplicemente dai voti perpetui, con un particolare impegno d’amore e servizio della missione della Chiesa nel mondo musulmano ed un voto d’ospitalità.
Riteniamo che il monastero abbia riscoperto e riassunto il ruolo del monastero orientale, specialmente il ruolo simbolico e spirituale del monastero nel deserto, nel contesto islamo-cristiano. Vengono in visita persone di tutte le Chiese della Siria e di altri paesi vicini. E’ anche evidente che i musulmani locali mostrano un interesse che va oltre la mera curiosità culturale: vengono infatti a migliaia, specialmente nei venerdì di primavera. A un altro livello, molte persone straniere - pellegrini, turisti o residenti nella regione per lavoro – di varia provenienza religiosa e culturale, vedono il monastero come un luogo spirituale importante per loro sul piano simbolico.
Il monastero organizza anche workshop e conferenze su diversi temi del dialogo interreligioso. Queste attività creano forti e personali relazioni cristiano-islamiche e noi speriamo che questi aspetti si svilupperanno negli anni a venire. L’interesse speciale della comunità monastica verso il mondo islamico ha creato sia curiosità ed apprezzamento sia dubbi e talvolta rifiuto aggressivo. La nostra idea è che la Chiesa non solo è mandata dallo Spirito alle nazioni o ai popoli, ma a tutti i gruppi significativi di persone, quindi anche alle grandi comunità religiose. Il discernimento spirituale e l’insegnamento della Chiesa ci spinge a credere che la relazione tra la Chiesa e la Umma islamica (comunità/nazione) è importante per la storia della salvezza. Ciò si radica nella Bibbia e nella particolare esperienza religiosa e spirituale del Profeta Muhammad. C’è un mistero d’Ismaele, legato e analogo al mistero d’Israele, che solo l’amore evangelico e l’intelligenza spirituale può concepire. Consideriamo questo processo un dovere e un incarico ecclesiale in cui è necessaria la partecipazione di molti, in uno spirito di grande comunione e condivisione di esperienze10.
La nostra vocazione è fondata sulla ricchissima esperienza accumulata dalle Chiese orientali di testimonianza cristiana di vita in comune con i musulmani per quattordici secoli, profondamente armonizzata attraverso la lingua araba. Seguiamo il cammino di San Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, Charles de Foucauld, Luis Massignon e Mary Kahil, partecipando dell’amore di Gesù per ciascun musulmano uomo e donna. Consideriamo l’Islam come il gruppo umano al quale apparteniamo e nel quale siamo felici di vivere, grati a Dio per essere stati scelti per partecipare alla vita della Umma.
Desideriamo ardentemente che oggi, anche attraverso di noi, il Figlio di Dio incarnato possa incarnarsi linguisticamente, religiosamente, storicamente e simbolicamente nel mondo musulmano, al fine di realizzare, per intercessione di Abramo, la benedizione di Dio su Ismaele. Noi contempliamo come, in modo inseparabile dal mistero della Chiesa, Corpo di Cristo, questo mistero di Gesù è determinante per la salvezza di ciascun uomo e donna dall’alba dell’umanità fino ai finali destini del genere umano. Questo mistero, di cui con lo Spirito di Dio siamo profondamente testimoni, dev’essere armonizzato, dallo stesso Spirito, con la coscienza che ci sono nel mondo enormi e crescenti gruppi religiosi che offrono esperienze religiose alternative e spesso concorrenti. L’Islam non è l'unica religione pienamente consapevole di voler essere più perfetta e definitiva del cristianesimo. Esso è non solo contemporaneo del cristianesimo ma, in un certo senso, è anche post-cristiano. L’“ermeneutica dell’amore” è la sola capace di superare queste enormi sfide interpretative e relazionali. Intendiamo il monastero come casa spirituale di quei cristiani, discepoli di Cristo, che sentono una vocazione di amore profondo e umile per i musulmani. Come pure il monasteri è, nei confronti dell’Islam, un porto spirituale dedicato a quei musulmani che sentono una vocazione a una più profonda amicizia coi cristiani. Per noi come per loro costituisce un luogo d’armonia e una profezia di pace per la nostra regione e oltre.
Temi importanti come la fede, la profezia, Muhammad in quanto profeta, il valore teologico delle rivelazioni extra-bibliche, lo statuto teologico del misticismo extra-cristiano ecc. sono tutti argomenti che devono essere trattati nel dialogo delle Chiese, come parte essenziale dell’interpretazione spirituale dei segni di Dio per il nostro tempo. Ciò che è meraviglioso nell’essere nella Chiesa oggi è che ci è consentito credere fortemente di poter restare profondamente fedeli e aderenti all’autentica Tradizione e, allo stesso tempo, esplorare insieme e secondo i diversi carismi le vaste terre sconosciute d’una sempre nuova relazione islamo-cristiana.
Noi sentiamo e soffriamo l’impasse del nostro mondo musulmano in questi giorni. Siamo addolorati dal significato simbolico degli attacchi suicidi e, insieme a questo, umiliati dalla violenta aggressione occidentale e sionista al nostro mondo.
Tanto quanto, per amore di Gesù, approfondiamo la nostra appartenenza al mondo musulmano, sentiamo che rendiamo altrettanto profonda la nostra appartenenza mistica al suo Corpo, la Chiesa, nella prospettiva di Gerusalemme Madre di tutti gli uomini.

Parte Prima: Una Comunità Monastica riflette sul Sinodo:

Abbiamo appreso con gioia la notizia della prossima “Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente”. Siamo molto grati a Papa Benedetto XVI, successore del pescatore di Galilea, per la sua decisione, la quale dimostra il suo impegno apostolico per il futuro delle nostre Chiese.
La Comunità Monastica di Deir Mar Musa in Siria desidera offrire il suo contributo al Sinodo commentando il documento preparatorio, i Lineamenta.

Leggere la Bibbia, Promuovere la Giustizia:

In Oriente, capire la Bibbia è problematico a causa dell’interpretazione del Primo Testamento che viene ampiamente usata per giustificare la costituzione e l’allargamento dello Stato di Israele. Ciò colpisce gli arabi, cristiani e musulmani allo stesso modo. Da parte araba, ci si è sforzati di delegittimare tutti i riferimenti storici alle Sacre Scritture, ed altre interpretazioni intendono proporre una teologia della liberazione del popolo palestinese. In tutto ciò, la Bibbia è sovente e realmente vittima di violenza ermeneutica. Pertanto, la cristianità in Oriente rimane come chiusa nel Nuovo Testamento, tagliata fuori dalle sue radici. Leggendo tutta la Bibbia, qui nella nostra comunità, veniamo in contatto con gli aspetti conflittuali della nostra storia nel quadro del disegno, del progetto divino di speranza.
La realtà delle tre comunità abramitiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, appare a molti quella d’una coesistenza forzata, dove ciascuno considera sacre solo le sue Scritture e quelle degli altri obsolete o false. Simbolicamente, la cristianità orientale si sente in qualche modo bloccata tra la sconfitta subita nel settimo secolo ad opera dell’Islam e quella per mano d’Israele e dell’Occidente nel ventesimo secolo. Alcuni dei nostri cristiani orientali restano fortemente nostalgici dei tempi d’oro in cui il re e lo stato erano cristiani, e a molti di loro sembra che oggi la vittoria abbia arriso a chi crocefisse Gesù (a loro modo di vedere, gli ebrei) e all’Anticristo (secondo loro, i musulmani).
Nonostante tali elementi, la pratica del buon vicinato, comune ad ebrei, cristiani e musulmani, nei villaggi e nelle città arabo-islamici, ha spesso condotto a stimare la fede, il culto e le Sacre Scritture dell’altro. Ciò è ancor vero oggi: luoghi sacri comuni, la condivisione di feste (come il 25 marzo, l’Annunciazione, dichiarata festa nazionale in Libano), la partecipazione alle cerimonie religiose dei vicini (Shabbat, Ramadan, Hajj, Natale; e battesimi, circoncisioni, matrimoni e funerali).
Nonostante il Concilio Vaticano II, dobbiamo ammettere che la Chiesa nel Medio Oriente, quella orientale come la Chiesa latina, non sembra preparata a lasciarsi dietro le spalle il tradizionale schema teologico che considera la Chiesa, “il popolo di Dio”, l’unico sostituto del popolo ebraico. In questa stessa logica di sostituzione, la Chiesa deve confrontarsi con l’Islam, che considera la Umma l’unico e definitivo popolo di Dio. Insieme alla maggior parte dei musulmani, spesso i cristiani in Oriente considerano ingenue le interpretazioni occidentali della Bibbia (e più chiaramente nel caso dei cristiani fondamentalisti), perché essi pensano che quelle ermeneutiche siano facilmente usate dalla propaganda dello Stato d’Israele.
I testi liturgici orientali (inni del venerdì, Venerdì Santo, Pasqua, ecc.) esprimono ancora un profondo e antico antagonismo verso gli ebrei. Non è pertanto rinviabile la revisione dei testi liturgici e dei catechismi. Ciò aiuterà anche a superare i tradizionali sentimenti anti-islamici.
Questo cambiamento di prospettiva è difficile finché la Chiesa nel suo insieme non mostrerà un’efficace solidarietà politica e teologica verso gli abitanti sofferenti della Palestina. Il Sinodo deve chiedere l’internazionalizzazione di Gerusalemme e un impegno delle Nazioni Unite per la creazione di uno Stato palestinese ragionevolmente vivibile, così come la restituzione delle alture del Golan alla Siria. La riconciliazione con il popolo ebraico non è possibile a spese della giustizia, e la tragedia della Shoah non giustifica, agli occhi dei cristiani orientali, l’occupazione della Palestina. Il Sinodo può proporre una visione profetica in cui la divisione oggi necessaria della Terra Santa in due stati è vista in una prospettiva di unità di Gerusalemme e della “Terra” in abramitica armonia. Questa non è solo una visione escatologica; infatti l’unità della “Terra” è oggi concretamente rilevante sia per i musulmani sia per gli ebrei, per opposte ragioni. Del resto, la divisione è rifiutata da entrambe le parti e può essere accettata solo in via transitoria. La Chiesa deve agire e pregare perché tutti i partner nella Terra Santa possano sperare in una migliore intesa tra vicini in un unico Paese.
Il Sinodo è l’opportunità per rivedere l’ecclesiologia esclusiva tradizionale sulla base dell’ecclesiologia inclusiva di Lumen Gentium (n° 16) e della considerazione espressa in Dominus Jesus (n° 8) per le Sacre Scritture delle religioni in relazione al mistero di Cristo. Tale revisione condurrà ad una nuova ermeneutica del Nuovo Testamento e all’apertura alle comunità ebraiche e musulmane per via d’una reinterpretazione del Vecchio Testamento che non può essere selettiva o apologetica.
Dio non ha abbandonato i suoi figli ebrei e musulmani. Nello Spirito Santo e per i meriti universali della morte e resurrezione del Signore, egli comunica se stesso non solo ai cristiani, ma a tutti quelli che credono in lui, in vista della vera fraternità. I cristiani dovrebbero essere il lievito di pace nel Medio Oriente, ma essi devono chiedere a Dio la grazia d’un cuore sufficientemente generoso da abbracciare tutti i problemi della nostra regione!

Un Esame di Coscienza:

Nonostante il documento preparatorio riconosca la responsabilità morale dei ministri di Cristo (n° 42), a nostro avviso, i riferimenti fatti alle deficienze morali di una parte del clero sono insufficienti. Alcuni membri del clero scandalizzano i fedeli, insultano i poveri con la loro ostentata ricchezza e il loro attaccamento al denaro.
Il tema della castità non è meno serio, anche se le società mediorientali tendono a evitare scandali a tutti i costi. L’esame di coscienza della Chiesa tutta, riguardo alla pedofilia e altri atti penosi, non può consentire alle Chiese orientali di presumere la loro innocenza in questo campo. Infatti, i cristiani orientali sono già scandalizzati, ma non posseggono i mezzi per esprimersi o difendersi. Non dovremmo dimenticare che la castità è una virtù che s’impara a casa e in parrocchia, prima di costituire un aspetto specifico della vita consacrata. Deplorevolmente, un’atmosfera di esercizio formale dell’autorità nelle famiglie, nelle comunità religiose e nella società, facilmente porta a vizi nascosti, corrotte solidarietà e pericolosi silenzi. La grande forza d’animo, nel riformare su questi temi la Chiesa intera, mostrata dal Papa Benedetto XVI, è un motivo di nuova speranza e coraggio per i cristiani del Medio Oriente.
In generale, le nostre Chiese dimostrano poco interesse per le vocazioni monastiche e religiose radicate nella tradizione orientale. Lo studio della teologia e della spiritualità cristiana orientale non è sufficientemente promosso, specialmente quando si fa il paragone con i tanti studenti che si specializzano in diritto canonico per candidarsi all’episcopato. La promozione della vita consacrata richiede contemplazione e testimonianza evangelica ed assieme capacità di dialogo interreligioso.

Le Chiese Orientali e il Rito Latino:

Il Concilio Vaticano II riconosce in particolare il valore delle Chiese orientali in quanto testimoni di una ecclesiologia sinodale e diversificata. Poco di ciò è stato finora realizzato, e il Sinodo non potrà evitare la questione. Infatti, diverse organizzazioni ecclesiastiche occidentali (in particolare congregazioni religiose maschili e femminili) trovano ancora difficoltà ad adottare il linguaggio, la liturgia e la spiritualità delle Chiese orientali. Ciò è spesso vero anche per i nuovi movimenti ecclesiali e le nuove forme di vita consacrata, nella misura in cui essi continuano a sradicare culturalmente i nostri cristiani, alienandoli dai tesori delle proprie tradizioni.
Desideriamo sottolineare l’importanza dell’ordinazione presbiterale di uomini sposati nelle nostre Chiese orientali in conformità al testo conciliare Presbyterorum Ordinis (n° 16): “nel raccomandare il celibato ecclesiastico, non intende tuttavia mutare quella disciplina diversa che è legittimamente in vigore nelle Chiese orientali, anzi esorta amorevolmente tutti coloro che hanno ricevuto il presbiterato quando erano nello stato matrimoniale a perseverare nella santa vocazione, continuando a dedicare pienamente e con generosità la propria vita per il gregge loro affidato.”
Questa questione è dibattuta pure nella Chiesa latina, tuttavia anche nelle Chiese Orientali i preti sposati sentono il loro sacerdozio come di seconda classe, meno qualificato, in confronto ai preti celibi che, attualmente, sono i soli eleggibili all’ufficio episcopale.
Le donne restano emarginate e discriminate nelle nostre Chiese. Il Sinodo dovrebbe insistere sull’importanza dei ministeri ecclesiali delle donne nelle Chiese orientali, nelle quali si conservano antichi testi dei riti d’ordinazione delle diaconesse.
Noi riconosciamo inoltre il valore del ruolo ecclesiale delle donne, attraverso la presenza e l’impatto di numerose spose esemplari di preti, che agiscono curando malati, come catechiste e mediatrici tra la gente. Le donne cristiane nutrono nei loro cuori la speranza d’un Medio Oriente pacifico, giusto e umano.
Il Sinodo, a nostro avviso, ha bisogno di riconsiderare la questione del Patriarcato latino di Gerusalemme (cf. A.1.10 di Lineamenta) in termini di ecclesiologia storica e contemporanea. Infatti, agli occhi dei cristiani orientali, né le crociate né il periodo coloniale possono giustificare la creazione del Patriarcato latino.
La questione della Chiesa latina, che d’altronde costituisce una comunità davvero araba presente nell’intero Medio Oriente, dovrebbe essere intesa come un elemento rilevante nella relazione tra cristiani e musulmani e cristiani ed ebrei, in modo particolare nella Terra Santa. Questa realtà ecclesiale non può essere compresa solo in opposizione all’ecclesiologia cattolico orientale - cristiano orientale. Il mondo cattolico religioso-politico e teologico-ecclesiale del Medio Oriente ha una grande importanza per la comunità mondiale non solo dei 1,5 miliardi di cattolici, ma anche dei 2,5 miliardi di cristiani. Pertanto noi consideriamo il titolo patriarcale inappropriato per il Capo della Comunità latina nel Medio Oriente. Se il movimento per l’unione delle Chiese orientali con Roma prende piede senza il dovuto rispetto per la dignità apostolica delle Chiese orientali stesse, sarebbero giustificate le accuse di provocare la divisione e di produrre un cambiamento del carattere della Chiesa orientale attraverso la latinizzazione. In ogni caso, la conversione dalle Chiese ortodosse al cattolicesimo romano (che in Oriente è chiamato Rito latino) è inconcepibile nella prospettiva d’una corretta ecclesiologia.
Inoltre la Chiesa latina in Medio Oriente, dopo aver imparato a celebrare in Arabo, dovrebbe ritrovare la patristica e le radici canoniche orientali dei suoi fedeli allo scopo di portare poi testimonianza ai più costruttivi elementi della sua esperienza (riscoperta della Bibbia, rinnovamento liturgico, sensibilità universale, zelo missionario, carattere carismatico).
Il Sinodo dovrebbe proporre ai cristiani orientali la riscoperta della loro originalità e il loro antico e sempre-nuovo carisma. Abbiamo bisogno d’una vera cooperazione Est-Ovest basata sulla consapevolezza della nostra condivisa appartenenza cattolica, riconoscendo il valore delle nostre diverse tradizioni, ma anche creando un’effettiva comunione all’interno dei nostri paesi. I missionari stranieri, tradizionalmente presenti nella regione, dovrebbero prestare maggiore attenzione al valore delle Chiese orientali e dovrebbero appartenere ad esse!
Dovremmo in modo particolare incoraggiare i movimenti di famiglie cristiane e promuovere una sintesi tra i valori della nostra tradizione orientale e la nuova dinamica dello Spirito. I nostri pastori e leader laici (uomini e donne) dovrebbero tener conto dell’attrazione dei nostri giovani verso tutto ciò che è occidentale ed appare ai loro occhi come “moderno”. Essi vorrebbero adottare uno stile di vita occidentale come reazione a un mondo musulmano in apparenza tradizionale e “fondamentalista”.
Frequentemente, molti dei nostri giovani considerano il tradizionalismo della cristianità orientale e quello della nostra società musulmana come due aspetti d’una stessa società repressiva. La Chiesa orientale dovrà diventare umilmente profetica: deve operare nella direzione d’una vita partecipata con l’Islam e al rinnovamento della testimonianza cristiana nel contesto del dialogo interreligioso. Riguardo alla gioventù, si dovrà mostrare una nuova capacità di dialogo liturgico e simbolico con la modernità, e a questo scopo la Chiesa orientale cattolica dovrebbe impegnarsi mano nella mano con le Chiese sorelle ortodosse per realizzare quest’obiettivo comune.
L’esperienza dimostra che i giovani apprezzano e sono pronti a partecipare quando i loro educatori sono coscienziosi e coerenti nel loro approccio, anche quando questo va contro corrente. Dovremmo smettere di mettere in contrapposizione tradizione e modernità! I giovani, al contrario, desiderano ardentemente riappropriarsi delle loro profonde radici che gli consentono di confrontarsi sia con la modernità globale che con la rinascita islamica.

Testimonianza Cristiana:

I servizi missionari rivolti allo sviluppo umano, per esempio nell’educazione e nell’assistenza medica, sono spesso interpretati come proselitismo diretto contro l’identità della comunità dell’altro, sia cristiani orientali sia musulmani, o talvolta semplicemente arabi.
La Chiesa orientale deve sviluppare una teologia del valore dei musulmani nella storia della salvezza. Possiamo scegliere di portare testimonianza contro l’altro, oppure, al contrario, portare testimonianza in favore dell’altro, riconoscendo la sua vocazione e capacità di offrirci una sua originale testimonianza. Non è sufficiente lavorare in vista d’una presentazione esclusiva di Cristo e del Vangelo. Dovremmo mostrare un interesse per il Corano e per la figura del Profeta dell’Islam. Noi crediamo che lo Spirito Santo armonizzi, in una prospettiva politica, culturale e simbolica, la presenza della grazia e della luce come della fedeltà e della sofferenza seminati nelle anime degli uomini e delle donne coi quali viviamo nelle nostre società indivisibili.
Noi crediamo nell’evoluzione della società musulmana. Se basassimo la nostra speranza nella modernità occidentale augurandoci che schiacci la cultura musulmana, distruggendo l’agognata utopia religiosa dei nostri vicini, provocheremmo la loro violenta reazione. Si preparerebbe così il palcoscenico della nostra sconfitta ed un futuro di impoverimento spirituale e di conflitto sociale cronico per i nostri figli.
Un’alternativa reale è riconoscere chi siamo e quanto valiamo; adattare la liturgia alla gioventù; insegnare ai bambini, attraverso la catechesi, il rispetto e la considerazione dovuti ai seguaci di un’altra comunità di fede; portare testimonianza della dignità inviolabile dell’individuo e della sua coscienza come ridefinita dalla Chiesa moderna; lavorare per educare ad una democrazia che non sia una dittatura della maggioranza; promuovere la dignità delle donne nella Chiesa, cosicché esse siano riconosciute nella società stessa; operare per la graduale e non violenta maturazione della società.
Noi vogliamo uno stato “postmoderno” dove l’Islam sia in armonia con democrazia e cittadinanza, ma con la consapevolezza del sacro. Sintetizzando il valore di ciò che nell’altro c’è di antico e di nuovo, i cristiani orientali saranno il lievito nel cuore d’una società islamica che evolve positivamente.
Insieme noi porteremo la testimonianza del desiderio di giustizia sociale e liberazione nazionale, accentuando la nostra fiducia nell’efficacia della rivendicazione non violenta che condividiamo con molti musulmani. Contemporaneamente la società musulmana è animata dalla necessità di trasparenza morale e reagisce violentemente contro la depravazione tollerata e pubblicizzata nella moderna società occidentale.
Chiedendo libertà di coscienza e rispetto per i Diritti Umani, dovremmo per prima cosa interiorizzarli nella nostra catechesi. Se i cristiani orientali avranno accesso all’autentica libertà nella Chiesa, ne porteranno testimonianza nella società.
Insieme a musulmani ed ebrei, daremo testimonianza della necessità di vincere la corruzione economica, opponendoci a qualunque “mafia” basata sulla solidarietà etnica o comunitaria. Daremo testimonianza a una società in cui la tolleranza benevolente per ogni minoranza sia l’espressione della nostra appartenenza al mite Maestro di Nazareth. Questa testimonianza cristiana non può essere separata dalla sua prospettiva escatologica e si armonizza con la speranza musulmana ed ebraica.
Noi chiediamo alla Santa Vergine Maria, Gioia di Abramo, Figlia di Sion, Madre di Dio, Madre del Cristo a Betlemme, Maestra di Vita a Nazareth, di insegnarci il buon vicinato, di mostrarci come essere insieme figli di Dio, di darci la forza spirituale di servire la resurrezione dell’Oriente, e di farci vedere il luminoso futuro che insieme ci attende, perché proprio in quella Gerusalemme saremo consolati.
Nella sua ricerca della comunione ecumenica e nella sua relazione con ebrei e musulmani, la Chiesa in Oriente porta in seno una profezia di speranza per il mondo intero.

Parte seconda: Un Commento su l’Instrumentum Laboris

Il testo di questo secondo documento preparatorio è molto ricco. La conferenza organizzata dal Centre for Eastern Christianity era stata aperta dal Vescovo caldeo di Aleppo, il gesuita siriano Antoine Audo, un esperto in studi biblici ed un pastore generoso, che ha fatto molto per assistere i cristiani iracheni rifugiati in Siria. Il Vescovo Audo ha detto chiaramente che i cristiani orientali hanno paura di dover tornare a vivere come dhimmis (cristiani ed ebrei nello stato islamico, soggetti alla legge coranica, discriminati e costretti a pagare una tassa speciale). La loro rivendicazione è, piuttosto, per una piena cittadinanza in nazioni moderne e l’emancipazione dalla shari’a.
Ciò introduce un problema fondamentale che è, a mio avviso, centrale nella discussione pre-sinodale. Penso che siamo a un punto cruciale: i cristiani orientali vogliono essere liberi cittadini, che godono della libertà di coscienza e degli altri diritti dichiarati nelle risoluzioni delle Nazioni Unite. Chiedono d’ottenere lo stesso grado di libertà dei loro correligionari occidentali, oppure emigreranno! Per molti musulmani questo piano sa di occidentalizzazione e forse alcuni di essi sono anche (irresponsabilmente) contenti all’idea di avere tutto il paese per loro: “Se ne sono andati di loro volontà”. Una breve analisi dell’argomento nell’Instrumentum Laboris chiarirà questa materia.
Nel n°39 si propone che i cattolici riflettano sul concetto di “laicità positiva” dello stato. In questo modo parteciperebbero ad attenuare il carattere teocratico del governo, promuovendo l’uguaglianza fra i cittadini delle differenti religioni. In tal modo si promuoverebbe una democrazia secolare che riconosce pienamente il ruolo della religione anche nella vita pubblica rispettando, comunque, la distinzione fra le sfere religiose e secolari. Il concetto della laicità positiva è così importante per l’autore del documento che non si trova solo nel n°39 ma anche in altre sezioni, a volte con un nome diverso! Attraverso tutto il documento si sviluppa l’idea che i cristiani dovrebbero uscire dal loro ghetto di confessionalismo e impiegarsi nuovamente in politica e nel sociale, a favore d’una modernizzazione della società e dello stato.
Il n° 41 tratta il tema dello sviluppo dell’Islam politico nei passati quarant’anni. La conclusione si trova al n° 42: “Tali correnti estremiste, pertanto, costituiscono una minaccia per tutti, cristiani, ebrei e musulmani, e noi dobbiamo affrontarle insieme”. Vorremmo puntualizzare però che senza ristabilire la giustizia in Terra Santa, sarà difficile fronteggiare insieme gli estremisti. Inoltre, i movimenti politici islamici sono una realtà che esprime genuinamente bisogni fortemente sentiti dalla maggioranza della popolazione musulmana, cosicché l’opzione proposta contrappone “laicità” (più o meno positiva) a democrazia, secondo il principio mediorientale: “più democrazia è concessa, più è promosso l’Islam politico”!
Al n° 90, nell’ambito della difficile relazione tra Chiesa orientale e Giudaismo, il documento ripete: “le Chiese nel Medio Oriente invitano a mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica.”. In precedenza era stato detto che è “diffuso il parere che l’antisionismo” sia “piuttosto una posizione politica e di conseguenza da considerare estranea a ogni discorso ecclesiale”. Temo di leggere tra le righe che importanti circoli ecclesiastici siano pronti ad accettare l’occupazione sionista di tutta Gerusalemme nel nome della distinzione tra politica e religione e della laicità positiva. Ciò è però a spese della giustizia, senza la quale la religione non ha più alcun significato e la laicità nessun aspetto positivo. La Terra Santa ha un uguale valore simbolico universale per ebrei, cristiani e musulmani ed esso è dunque religiosamente e pertanto politicamente irrinunciabile.
Al n° 94, Gerusalemme è citata brevemente nel contesto del dialogo con l’Ebraismo. Ci si riferisce a quell’istituzione, opportuna teologicamente e pastoralmente, che è il Vicariato Patriarcale Latino per i cristiani di lingua ebraica … Ho un problema con il nome, non con l’istituzione: perché il Vicariato non è semplicemente per gli israeliani, così com’è per i francesi, i mongoli e gli arabi? E’ un dato di fatto che i cattolici di lingua ebraica in Israele hanno in maggioranza un back-ground cattolico-romano. Tuttavia, dal mio punto di vista, essi dovrebbero sviluppare una liturgia profondamente radicata nel contesto ebraico e non semplicemente una traduzione in ebraico del rito latino. Di conseguenza non hanno bisogno di appartenere al Patriarcato Latino.
Dobbiamo evidenziare che il tema di Gerusalemme non è stato toccato dall’Instrumentum Laboris. La creazione del Patriarcato Latino nel 19° secolo è ancora una ferita aperta per tutti i cattolici orientali ed ha costituito un’operazione simbolica di natura politico-religiosa legata ad una ecclesiologia centralizzata e ad un progetto coloniale sorpassato dal Vaticano II. Il Sinodo sarebbe un’opportuna occasione per il rispettabilissimo Capo della “Chiesa latina” di Gerusalemme (egli stesso un arabo palestinese …) per rinunciare al titolo patriarcale e forse persino alla qualifica di “latino” in attesa dell’elezione sinodale (in prospettiva escatologica?) di un unico Patriarca ecumenico della Chiesa Madre di tutte le Chiese! Ristabilire la giustizia nella Chiesa, prima di fare lo stesso nella società, offrirà un buon esempio tanto ad altre comunità cristiane che alla società. Comunque, l’Instrumentum Laboris, più che le precedenti Lineamenta, evita di trattare il tema di Gerusalemme, che è invece, in effetti, centrale sia politicamente che religiosamente.
Nella sezione dell’Instrumentum Laboris dedicata al dialogo con i musulmani, si cita il Concilio Vaticano II, ma non l’affermazione dogmatica di Lumen Gentium 16, in cui l’Islam ha un posto speciale nella comprensione della Chiesa del suo proprio mistero. E’ interessante notare che una simile resistenza appariva anche nella fase preparatoria del Sinodo sulla Parola di Dio.
Un elemento positivo, quasi in controtendenza, è rappresentato dal n° 96, nel quale un’opportuna citazione di Benedetto XVI sottolinea che le tradizioni bibliche e coraniche hanno “molto in comune”, e ciò proprio partendo dagli elementi di divisione insiti nella struttura geografico-culturale-religiosa del Medio Oriente, così che ciò costituisce un presagio di sviluppo del trialogo tra ebrei, cristiani e musulmani.
Al n° 96, per la terza volta, i musulmani sono rimproverati perché non distinguono tra religione e politica (la quarta è al n° 101 e l’argomento riappare al n° 103 e al n° 110): “il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini (…) La chiave del successo della coesistenza tra cristiani e musulmani dipende dal riconoscere la libertà religiosa e i diritti dell’uomo”. In breve, ciò che i cristiani orientali sono stanchi di sopportare è precisamente ciò che i musulmani vorrebbero ristabilire: una teocrazia. Vedo una doppia amnesia in questo: dimentichiamo quanto teocratico è stato il trionfo della Chiesa costantiniana in Oriente come in Occidente, e trascuriamo che è stata proprio la teocrazia musulmana a garantire il pluralismo religioso, quantunque imperfetto, in Medio Oriente.
Per essere più chiaro: non sostengo un Islam tradizionalista e statico, ma penso che non si possa imporre un modello dall’esterno senza mediazione. La libertà religiosa e i diritti umani non sono facili da imporre, nemmeno con le armi. Dovrebbero essere invece proposti con un dialogo calmo e non ideologico, con pazienza e sempre con apertura alla novità. In realtà, l’Islam può maturarli e svilupparli a suo modo, come frutto originale d’un mondo islamico vivace ed impegnato nel processo di riforma nel quadro d’una ridefinizione multi-polare della governanza globale.
Durante il suo apprezzato intervento a Londra, il Vicario Patriarcale per i Latini di lingua ebraica (il gesuita israeliano David Neuhaus) ha riconosciuto che gli ebrei, i musulmani e i cristiani hanno già avuto un’esperienza fondamentalmente positiva di coesistenza pacifica nell’ambito del buon vicinato e ciò deve essere riscoperto oggi, nonostante le difficoltà. Mi sono pertanto permesso di ricordare che tale coesistenza è stata possibile proprio nella cornice d’una non apprezzata teocrazia islamica (il cui ritorno non desidero, ma piuttosto il suo originale remake come frutto di confronto con la modernità). Nessuno può ignorare, nemmeno nel Sinodo, che i diritti e la libertà non possono essere ottenuti contro la democrazia, e che la democrazia non matura contro la maggioranza (in questo caso musulmana), ma nell’evoluzione di questa stessa maggioranza stimolata dalle minoranze in sincera solidarietà e unità nazionale, aperta alla regione e al mondo.
Perché non dovremmo essere capaci d’operare, partendo proprio da Gerusalemme, al-Quds, nella direzione d’una visione plurale e condivisa in cui – cercherò di tracciarla qui – gli ebrei aprono la Città Santa alle Nazioni e al loro fratello Ismaele, inaugurando i tempi messianici; i cristiani si fanno diaconi di comunione universale, cominciando dal servizio ai più poveri, inteso come segno messianico; e i musulmani istituiscono nuovamente la Città della Pace in una visione politico-teologica del mondo islamico, inteso come il Mondo della Pace, nel sacro impegno di proteggere ebrei e cristiani, in vista del Giorno del Giudizio a Gerusalemme; mentre le Nazioni Unite forniscono la garanzia della legalità globale.
Forse la laicità positiva, un concetto sostanzialmente francese, ci aiuterà; ma di molto maggior aiuto sarà la profetica obbedienza al bello, sempre nuovo e sempre in evoluzione Spirito di Dio.
Paolo Dall'Oglio
Note

1 Luigi Padovese, OFM Cap (31 marzo1947, Milano – 3 giugno 2010, Iskenderun) era il vescovo titolare di Monteverde e il vicario apostolico dell’Anatolia in Turchia. Fu assassinato dal suo autista il 3 giugno 2010. Padovese dal 1965 era membro dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, che ha una storica presenza in Turchia, ed era stato ordinato nel 1973. In seguito studiò alla Pontificia Università Antoniana e alla Pontificia Università Gregoriana. Sarebbe a tempo debito stato nominato professore di Patristica. Fu consacrato vescovo e nominato Vicario Apostolico dell’Anatolia nel 2004. Era stato anche presidente della Caritas Turchia.

2 La sezione seguente di questo scritto segue strettamente il racconto e lo studio: Emma Loosely – una laica anglicana e storica di Arte Cristiana Orientale - & Paolo Dall’Oglio, “La Communauté d’Al-Khalil: une vie monastique au service du dialogue islamo-chrétien” in: Proche Orient Chrétien (Jérusalem), Vol. 54, 2004, pp. 117-128.

3 La storia di Deir Mar Musa al-Habashi (Il Monastero di San Mosè l’Etiope) si può trovare nello studio di H. Khaufhold “Notizen über das Moseskloster bei Nabek und das Julianskloster bei Qaryatain in Syrien”, Oriens Christianus, 79 (1995), pp.48-119.

4 AAVV (in particolare Dall’Oglio, Cordaro, Alberti) Il restauro del monastero di San Mose l’Abissino, Nebek, Siria, Damasco, 1998.

5 Dall’Oglio, Speranza nell’Islam: Interpretazione della prospettiva escatologica di Corano XVIII , Marietti, Genova, 1991.

6 Sulla Chiesa siro-ortodossa, vedi: S. Brock, `The Syrian Orthodox Church in the twentieth century’, Christianity in the Middle East: Studies in Modern History, Theology and Politics, Edited by A. O’Mahony, London, Melisende, 2008, pp. 17-28; S. Brock, `The Syrian Orthodox Church in the modern Middle East’, in: Eastern Christianity in the modern Middle East, (eds) A. O’Mahony & E. Loosley, London, Routledge, 2010, pp. 13-24; E. Loosley `After the Ottomans: The Renewal of the Syrian Orthodox Church in the Twentieth and Twenty-First Centuries’, Studies in World Christianity, Vol. 15, no.3, 2009, pp. 236-247.

7 Sulla Chiesa siro-cattolica, vedi: John Flannery, `The Syrian Catholic Church: Martyrdom, Mission, Identity and Ecumenism in modern history’, Christianity in the Middle East Studies in Modern History, theology and Politics, London, Melisende, 2008, pp. 143-167; A. O’Mahony, `Between Rome and Antioch: The Syrian Catholic Church in the modern Middle East’, in: Eastern Christianity in the modern Middle East, (eds) A.O’Mahony & E.Loosley, London, Routledge, 2010, pp. pp. 120-137. Sullo sviluppo dell’Ecumenismo fra la Chiesa siro-ortodossa e siro-cattolica, vedi Sebastian Brock “The Syriac Churches in Ecumenical Dialogue on Christology,” in A. O’Mahony, ed. Eastern Christianity. Studies in Modern History, Religion, and Politics, London: Melisende, 2004, 44-65; Sebastian Brock, `The Syriac Churches and Dialogue with the Catholic Church’ In: The Heythrop Journal, A Quarterly Review of Philosophy and Theology, Vol. XLV (2004), pp. 466-476.

8 Dall’Oglio, P., “Massignon and jihad, through De Foucauld, al-Hallaj and Gandhi” in Faith, Power and Violence, ed. J.J. Donahue, S.J & C.W. Troll, S.J., Orientalia Christiana Analecta 258 (1998), pp.103-114.

9 Paolo Dall’Oglio S.J. `Louis Massignon and Badaliya’, Aram: Society for Syro-Mesopotamian Studies, Vol. 20. (2008) pp. 329-336; Emma Loosley, `The Challenge of Monasticism: Louis Massignon and the Hospitality of Abraham’, Aram: Society for Syro-Mesopotamian Studies, Vol. 20. (2008) pp. 317-327; sulla relazione fra Massignon e Charles de Foucauld vedi, Hugues Didier, `Louis Massignon e Charles de Foucauld’, Aram: Society for Syro-Mesopotamian Studies, Vol. 20. (2008) pp. 337-353.

10 Cfr. Paolo Dall’Oglio, Amoureux de l’Islam, croyant en Jésus, les Éditions de l’Atelier, Paris 2009

Italian